#ToSp2015_LA MORTE DI IVAN IL’IČ

La storia della vita passata di Ivan Il’ič era la più semplice, la più comune, e insieme la più tremenda che si possa immaginare. 
Per Heidegger l’esistenza è autentica quando è pervasa dall’angoscia che scaturisce dal prendere coscienza della nostra finitudine: questo è il “vivere-per-la-morte”, che ha dunque una valenza altamente positiva, in quanto rende autentiche le scelte e, con esse, la vita (cosa che non potrebbe avvenire in una prospettiva di vita eterna). E tuttavia, come ricorda lo stesso Heidegger, possiamo vivere come fatto solamente la morte altrui, mentre la nostra la viviamo sempre e soltanto come possibilità, nella consapevolezza che, prima o poi, essa ci coglierà. Ma tale consapevolezza non è sempre presente negli uomini, non lo è ad esempio in Petr Ivanovic che ogni qualvolta pensa alla morte e alle tremende sofferenze di Ivan Il’ič si ripete che “questo era potuto accadere a Ivan Il’ič ma non a lui: a lui ciò non doveva, non poteva accadere”.

Non lo è neppure nel procuratore e nei giudici della gran Corte di giustizia: “Il fatto stesso della morte di una persona tanto vicina a loro, aveva suscitato, come accade sempre, in tutti coloro che l’avevano appreso, un senso di soddisfazione perché ognuno pensava: è morto lui e non io”. Ma tale sgomento per la possibilità della morte appartiene allo stesso Ivan Il’ič: “Si tratta della vita… e della morte. Sì, la vita c’era e ora se ne va, se ne va e non posso trattenerla”. “Sarà dunque la morte? No, non voglio». Ivan Il’ič capiva di morire ed era disperato.
“Nel profondo del suo spirito egli sapeva di dover morire, ma non soltanto non si era abituato a quest’idea, non la poteva concepire, mai l’avrebbe potuta concepire”. Ma ciò che più lo tormentava era la menzogna, “il vedere che nessuno voleva confessare ciò che tutti sapevano, che lui stesso sapeva, e invece si mentiva sul suo orrendo caso, si voleva che anche lui prendesse parte a quella menzogna”. E ciò che più desiderava era che qualcuno avesse pietà di lui, che qualcuno lo comprendesse. Ma alla fine avviene il contrario, avviene che lui, il moribondo, accettata l’incombente presenza della morte, ha pietà di loro, dei vivi. Dei vivi che vivono un’esistenza falsa e inconsapevole.
“Cercava il suo antico, solito terrore della morte e non lo trovava. Dov’è la morte? E che cosa è la morte? Non esisteva più terrore perché non esisteva più morte. Invece della morte c’era la luce.
— Ecco che cos’è! — proruppe a un tratto ad alta voce.
— Che gioia!
Tutto ciò accadde in un istante, ma il significato di quell’istante non poteva più mutare. (..)
— È finito! — disse qualcuno, chinandosi su di lui.
Egli udì quelle parole e le ripeté dentro di sé. «È finita la morte», disse nel suo pensiero. «La morte non esiste più».
Diede un respiro, ma rimase a metà del respiro, s’irrigidì e morì.”
Costanza Franceschini