MALAPARTE: QUANDO IL TRAUMA È TROPPO FORTE SI SCRIVE CIÒ CHE IL REALE OBBLIGA A SCRIVERE

Raccontare spiando dal buco della serratura. Raccontare i fatti per sentito dire. Raccontare dopo un’inchiesta. Raccontare con i dati alla mano. Informarsi e mettersi a scrivere. Usare fotografie, testimonianze degli altri. Sono tanti i modi per raccontare la Storia. Quello di Curzio Malaparte non è nessuno di quelli citati.

Malaparte in Kaputt fa qualcosa di diverso. Lui è va dove le cose succedono, è inviato del Corriere della Sera.
Racconta quello che deve sulle colonne del giornale. Siamo nel pieno del secondo conflitto mondiale. Attraversa diversi fronti, è in Lapponia, è in Polonia, è in Ex Jugoslavia. Ma cosa fa, Malaparte? Mette a repentaglio la propria vita, sì, esplorando zone di guerre, ma mette anche a repentaglio la propria capacità di non farsi contaminare dal male che vede. Così nasce Kaputt.

È un italiano tra i cattivi. Frequenta gli alti comandi delle SS, i peggiori criminali, costruisce finte amicizie mosso da una volontà di capire, di tirar fuori dal mostro la parola rivelatrice. Malaparte sa e dice in questo libro che il male è un contagio, una malattia che non fa differenze tra i puri e i mostri, che la vittima può diventare carnefice e il carnefice vittima. E afferma questo concetto nel 1944, quando il mondo ha bisogno di valutazioni ideologiche certe, di capire, perché deve ricostruirsi.

Malaparte non nasconde niente a se stesso e non nasconde niente al lettore.
Non nasconde nessun orrore ai suoi interlocutori, a quelli a cui si trova a raccontare che cosa ha visto nei campi di battaglia e alle cene mondane a cui ha preso parte. Chi lo ascolta non fa altro che chiedergli di cambiare discorso, “Malaparte ci racconta un’altra storia?”, “Malaparte ci racconti qualcosa di più allegro”. Ma lui non lo fa e così costruisce Kaputt, raccontando ad altri, al ritorno, che cosa succede davvero.

Sono giovani, venti, venticinque, trent’anni, ma tutti hanno nel il viso giallo e rugoso i segni della vecchiaia, tutti hanno l’occhio disperato della renna. Sono bestie, sono bestie selvatiche, penso con orrore, tutti hanno nel viso la mansuetudine delle bestie selvatiche, l’assorta malinconia, la terribile pietà.

Così descrive i soldati tedeschi. E non si ferma: parla di quelli morti nel ghiaccio con il braccio alzato a guisa di segnaletica, racconta dei venti chili di occhi umani sul tavolo del gerarca nazista, sono dono di soldati, descrive i treni dei deportati ebrei che, quando si aprono, sono una pioggia di cadaveri, uomini che per il gelo hanno perso le palpebre e sono condannati alla luce eterna. Malaparte ci racconta un’altra storia? 

Proprio per queste immagini vivide, chi lo lesse all’epoca si trovò a doverlo chiudere, Kaputt.
E sono queste immagini terribili che gli interlocutori di Malaparte non vogliono immaginare. Lui trasforma la chiacchiera mondana in testimonianza, dice proprio a quei dirigenti che – dopo aver condannato milioni di italiani alla morte durante la prima guerra – non hanno impedito la seconda catastrofe. Lo scandalo è già scritto nel libro, e nessuno lo vuole sentire. E noi siamo quelli che non vogliono sentire, anche non siamo cattivi. E lo scandalo e che la fortuna gira, come una ruota, e che il vincitore può essere un vinto. E che il mostro è complesso, non è solo la somma di caratteristiche malvagie. Anche il nazista ama Chopin.

Ed è a Louise von Hohenzollern che Malaparte racconta un fatto crudelissimo, che dà la misura della sua tesi: il carnefice diventa vittima, la vittima carnefice, nessuno è al sicuro dal contagio del male. Le dice – e lo fa per consolarla! – il rito di iniziazione delle nuove SS. I giovani tedeschi devono mutilare e rendere cieco un gattino usando un braccio solo. E proprio qui c’è la sproporzione: quei tedeschi alti e biondi sono nuovi Sigfrido, eroi wagneriani che se la prendono, però, con un insignificante e innocuo gattino. Ma il torturatore di gatti diventerà lui stesso vittima, come i due commensali tedeschi, seduti con l’aristocratica von Hohenzollern e Malaparte: sono due soldati rimasti ciechi a causa di una bomba, non riescono nemmeno a portare il cucchiaio alle labbra. E la parola kaputt, proprio quella, viene proprio dall’ebraico kapparot, e significa vittima: un giorno nella condizione di re, un giorno nella condizione di cadaveri.

È il racconto di un singolo, che ci porta fin dentro la sauna dove c’è proprio Himmler, l’angelo della morte, il nazista più spietato, e ce lo mostra nudo. È il racconto del singolo che del male va a cercare un “inaccessibile inferno”, il “volto vietato”, il “viso segreto”. Nonostante il disagio che prova si spinge dentro il male, perché “mancava qualcosa e non sapevo dire che cosa, qualcosa di cui non sapevo la natura”. Malaparte cerca la rivelazione, non l’aspetta.

“I tedeschi nudi sono meravigliosamente inermi, non fanno più paura, il segreto della loro forza è nella loro uniforme. La loro vera pelle è l’uniforme” e la loro nudità è floscia e inerme morte nudità. Poi guarda Himmler, nella sauna:  ha “occhi simili agli occhi di un pesce”, ha “un ombelico bocciolo di rosa, di bambino nel ventre di vecchio”.

Perché sembrava un bambino floscio, quel mostro?
Malaparte di Himmler, il capo delle SS, organo ingovernabile per lo stesso esercito tedesco, ci dice che
“è un sorbetto messo in un forno, un amen e non sarebbe rimasto di lui che una pozza di sudore sul pavimento”.

Spingersi al di là del giudizio condiviso. Andare a cercare le origini del male. Scoprire che il male si intreccia, nel profondo, ad altro e dire così lo scandalo, e dire lo scandalo nel 1944, quando nessuno vuole sentire. Quando il trauma è troppo forte si scrive ciò che il reale obbliga a scrivere.

 


 

 

Questa è la terza conversazione sul neorealismo, con Emanuele Trevi che ha letto Kaputt di Curzio Malaparte. La prima la trovate qui, la seconda qui. La terza è il 3 novembre con Valeria Parrella e Beppe Fenoglio, Una questione privata.