IL FASCINO DELLE COSE. GLI OGGETTI PER PAUL AUSTER, SONG DONG E BOLTANSKI
Se prendessimo un quaderno e cominciassimo ad annotare l’origine degli oggetti che abbiamo in casa, allora sarebbe come scrivere una piccola biografia che parte dalle cose e racconta noi. Il divano l’ho comprato in un negozio dell’usato una domenica di giugno, già caldissima. La caffettiera me l’ha regalata la zia, quella che abita lontano, il tappeto era già in questa casa e l’ho tenuto, chissà da dove viene. Il divano l’ho comprato con la mia fidanzata, ci siamo lasciati, la zia è quella che chiamo quando sono felice, questa casa è un disastro e il tappeto dovrei buttarlo.
Uno scrittore ossessionato dagli oggetti è Paul Auster. Gli arnesi rotti, i pezzi di cose non riconoscibili, gli scarti della vita metropolitana newyorkese. Hanno un fascino segreto e non ne parla volentieri di questa sua fissazione, nemmeno nelle interviste. In Trilogia di New York scrive “per quanto ne poteva dire Quinn, gli oggetti raccolti da Stillman erano privi di valore. Sembravano soltanto cose rotte, abbandonate, pezzi di ciarpame.” Sembravano. Gli oggetti, in letteratura, evocano cose che vanno ben al di là della loro presenza fisica. Nelle pagine dei libri ci sono tesori che sembrano inutili, ma non lo sono.
L’arte ha preso gli oggetti e li ha messi in mostra, senza nient’altro. Anche solo giustapporli è significativo. Come ha fatto l’artista cinese Song Dong, che, alla morte del padre, ha aiutato la madre ad affrontare il lutto scomponendo il contenuto della loro casa. Il risultato è un’installazione al MoMa, intitolata Waste Not. Ne ha parlato Giorgio Vasta qui.
Percorrendo l’installazione si osservano, ben compartimentati sul pavimento, gli oggetti accumulati negli anni: rocchetti di filo, tubetti di dentifricio spremuti, scarpe, vasellame, saponette, bacinelle. Un memorial degli oggetti domestici.
E poi c’è Christian Boltanski che racconta le vite degli altri attraverso i loro oggetti. Le sue opere dicono che contro il tempo si perde, e ciò che resta sono le cose. E restano le nostre immagini, che non possono più parlare, con tutti i ricordi che evocherebbero, se potessero dirli. I volti dei bambini sono collegati ai loro vestiti da fili e da luci, per conservare il ricordo e il collegamento. La gru sposta continuamente i vestiti che compongono una enorme montagna colorata: le vesti, appartenute a qualcuno, si muovono e si scompongono, cadono, e il mucchio non è mai uguale.
Sembra un modo per dire che la memoria può rimanere viva, anche se, contro il tempo, si perde.
A Torino è cominciata Artissima. E The Others. E Flashback. E Operae. E Paratissima.
Boltanski è in mostra qui.
Contemporary Torino.
Song Dong
Christian Boltanski