DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI LIBRI? GUARDARE LA LETTURA DAL SUO CONTRARIO, OVVERO LA NON-LETTURA
Martedì comincia il gruppo di lettura di Francesco Guglieri, e si parlerà di libri, quelli che abbiamo letto, e quelli che non abbiamo letto. Quelli di cui si parla volentieri, quelli di cui si fa finta di parlare, con un po’ di imbarazzo. Abbiamo chiesto a lui, che nella vita fa l’editor della narrativa straniera Einaudi, che ha insegnato Letterature comparate all’Università di Torino e Genova, che collabora con Rivista Studio e con L’Indice dei libri, di dirci qual è l’arte e la maniera di parlare dei libri senza averli letti.
«Non leggo mai i libri che devo recensire: non vorrei esserne influenzato» diceva Oscar Wilde.
D’altronde il grande scrittore inglese diceva anche che la critica letteraria è l’unica forma civile di autobiografia. Insomma, di cosa parliamo quando parliamo di libri? Più di noi che dei libri stessi, mi sa.
Eppure poche cose ci appaiono più solide dei libri. Una sequenza ordinata di parole, immutabile nel tempo, dalla realtà oggettiva e indiscutibile. Al punto da dargli grande importanza: in qualche modo pensiamo che “ci rappresentano”, dicono non solo i nostri gusti ma definiscono la nostra personalità: li impiliamo nelle librerie di casa, li fotografiamo sui social, copiamo le frasi da condividere su Facebook.
Paradossalmente mi sono accorto che più dedico la mia vita alla lettura, più l’atto di leggere diventa qualcosa di misterioso.
«Non l’ho letto e non mi interessa»: la frase di Giorgio Manganelli non è solo uno sfogo, paradossale e ironico quanto si vuole. È anche un modo per dire che ogni libro non è un oggetto isolato, unico, ma fa parte di una serie, dialoga con altri libri presenti e passati, rielabora storie precedenti, magari aggiornandole di poco: il collaudo della lettura spesso può essere superfluo, e quello che pensavamo di un libro prima di aprirlo non cambia dopo averlo letto davvero.
Ma cosa vuol dire “leggere davvero” un libro?
In fondo lo stesso libro che ho letto da ragazzo oggi mi apparirà completamente diverso, e magari quello che da giovane mi annoiava ora mi si rivelerà una complessa e sottile analisi psicologica. Eppure è sempre lo stesso libro. Allo stesso modo, di molti libri letti quando ero ragazzo non ricordo nulla. Alcuni non ricordo nemmeno di averli letti e quando me li ritrovo nella libreria, magari pesantemente sottolineati, non posso fare a meno di chiedermi cosa è rimasto del tempo passato tra quelle pagine. Un albero caduto in mezzo al bosco è davvero caduto se nessuno l’ha visto? Alla stessa maniera è davvero letto un libro che non ricordo di aver letto? E quanto devo leggerne per considerarlo letto? Tutto, ogni pagina, ogni riga, o arrivati a un certo punto lo si può segnare tra i letti e mettere da parte senza sentirsi in colpa?
Ecco: il senso di colpa. A volte, soprattutto in certi ambienti, si è pronti a confessare i più nefandi segreti ma non si ammetterebbe mai che non si è letto un certo libro, soprattutto se è un classico.
Ma questa idea sacrale della lettura, come un dovere a cui ci si deve attenere, non fa bene a nessuno, tanto meno alla lettura stessa. Trasforma ogni libro in un libro sacro: ma leggere, credo, è un gesto magnificamente profano perché non ha a che fare con delle sacre verità ma con delle discussioni sempre parziali, sempre negoziabili, con dei punti di vista che si confrontano.
Alla fine quello che è importante è cosa ci facciamo con quello che leggiamo, e come questo ci cambia non solo mentre lo leggiamo ma anche, soprattutto, quando ce lo raccontiamo.
Guardare alla lettura dal suo “contrario”, cioè dal punto di vista della non-lettura, allora è un modo – un po’ paradossale, forse irriverente – per ridare al nostro rapporto con i libri la sua giusta dimensione. E permette di scoprire anche quanto delle non-lettura sia parte costitutiva del leggere.
Francesco Guglieri ha scritto anche questo pezzo qui: Leggere per dimenticare per Rivista Studio, sempre su questa arte, e su questa maniera di parlare dei libri, senza averli letti.