L’ARTE DI STAR SOLI. MA NON TROPPO. JOHN KEATS, ELIZABETH BISHOP, ROBERT LOWELL

Per Keats la solitudine è ciò che porta l’uomo alla conoscenza della verità e alla contemplazione della bellezza. Dove c’è solitudine c’è silenzio, e nel silenzio diventano udibili le nostre voci interiori. Per scrivere bisogna star soli, è necessario per vedere meglio. Ma se solitudine dev’essere, è importante che non sia troppa, perché – e lo dice Oliver Sacks – l’isolamento è inefficace e può attenuare il nostro spirito creativo: mantenere un rapporto con il mondo è necessario, sempre.

Questa la poesia di Keats dedicata alla solitudine:

Solitudine, se vivere devo con te,
Sia almeno lontano dal mucchio confuso
Delle case buie; con me vieni in alto,
Dove la natura si svela, e la valle,
il fiorito pendio, la piena cristallina
Del fiume appaiono in miniatura;
Veglia con me, dove i rami fanno dimora,
E il cervo veloce, balzando, fuga
Dal calice del fiore l’ape selvaggia.
Qui sarei felice anche con te. Ma la dolce
Conversazione d’una mente innocente, quando le parole
Sono immagini di pensieri squisiti, è il piacere
Dell’animo mio. È quasi come un dio l’uomo
Quando con uno spirito affine abita in te.

Per l’artista, per il poeta, per lo scrittore, e per ognuno di noi, il rapporto tra solitudine e vicinanza con il mondo dev’esser simile a una danza, è un avvicinarsi e un allontanarsi continuo. Lo racconta con raffinatezza Elizabeth Bishop in una lettera a Robert Lowell. I due poeti erano molto amici, e il rapporto epistolare dura tutta una vita.

La solitudine – scrive Bishop nel 1948 – è nutriente, e può nauseare se assunta senza moderazione, come tutte le cose buone. Più si diventa vecchi più si fa necessario apprezzare questo nutrimento. La persona più sola che sia mai vissuta, così chiede che sia scritto sul suo epitaffio. La solitudine è servita al poeta per lavorare e per scrivere le sue migliori poesie, ma anche è stata alleviata dalle amicizie, come quella con con Lowell.

Se tutto il problema della vita è questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri come disse Cesare Pavese, allora star soli è un’arte che si può imparare, un problema che si può risolvere. Come nella poesia più conosciuta di Elizabeth Bishop, L’arte di perdere:

L’arte di perdere non è difficile da imparare;
così tante cose sembrano pervase dall’intenzione
di essere perdute, che la loro perdita non è un disastro.
Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta il turbamento
delle chiavi perdute, dell’ora sprecata.
L’arte di perdere non è difficile da imparare.
Poi pratica lo smarrimento sempre più, perdi in fretta:
luoghi, e nomi, e destinazioni verso cui volevi viaggiare.
Nessuna di queste cose causerà disastri.
Ho perduto l’orologio di mia madre.
E guarda! L’ultima, o la penultima, delle mie tre amate case.
L’arte di perdere non è difficile da imparare.
Ho perso due città, proprio graziose.
E, ancor di più, ho perso alcuni dei reami che possedevo, due fiumi, un continente.
Mi mancano, ma non è stato un disastro.
Ho perso persino te (la voce scherzosa, un gesto che ho amato). Questa è la prova. È evidente,
l’arte di perdere non è difficile da imparare,
benché possa sembrare un vero (scrivilo! ) disastro.