L’ESTATE DI SYLVIA PLATH A NEW YORK. E LA VALIGIA BUTTATA DALLA FINESTRA
Cara Mamma,
In questi ultimi tre giorni sono successe un’incredibile quantità di cose così in fretta. … Dalla mia finestra guardo giù attraverso i giardini e le viuzze fino alla rumorosa sopraelevata della terza Avenue e il palazzo delle Nazioni Unite, con un segmento dell’East River tra gli edifici. Alle nove, seduta al mio tavolo di lavoro, osservo la rete di luci sottostante e il suono dei clacson mi giunge attutito come una dolcissima musica. Lo adoro.
Così comincia una lettera datata 4 giugno 1953: Sylvia Plath, dopo una serie di delusioni – ultima il rifiuto da parte del New Yorker di due sue poesie – ha ricevuto un telegramma da Mademoiselle, la rivista di moda fondata nel 1935 che ha pubblicato, tra gli altri, articoli di Truman Capote e Susan Minot. Insieme ad altre 20 giovani donne, selezionate nei college più prestigiosi, andrà a lavorare come guest editor, per un mese, a New York.
Il primo incarico di Sylvia Plath, che pubblicherà La campana di vetro dieci anni più tardi, nel 1963 (con lo pseudonimo di Victoria Lucas), è intervistare la poetessa Elizabeth Bowen. Era preoccupatissima per il proprio abbigliamento: dopo molti ripensamenti indossò il suo vestito migliore, una collana di perle, guanti e cappellino.
Lavorare per una rivista di moda come Mademoiselle significava infatti prestare molta attenzione al proprio aspetto esteriore. Le giovani donne chiamate a contribuire al numero, durante quell’estate del 1953, Sylvia Plath compresa, dovevano mostrarsi sempre perfette durante i numerosi cocktail party, spettacoli e cene glamour. Nonostante il caldo, l’obbligo era apparire sempre fresche e ordinate ogni mattina.
Sylvia Plath scrisse poco di questo mese estivo a New York nel suo diario. Si sa che la notte del 26 giugno, per festeggiare la fine di quello che oggi potremmo chiamare stage, la futura autrice di Lady Lazarus, lanciò l’intero contenuto della sua valigia – calze di nylon, gonne, camicette – giù dal tetto dell’hotel. Il giorno dopo prese in prestito una maglia e una gonna e tornò a casa. Non c’era lavoro, per lei, a New York dopo quel mese in redazione.
Se alla madre scriveva di adorare quel clima di festa, in verità vestiti, scarpe, tagli di capelli, pranzi, appuntamenti, calze, incontri, leggerezze – tutte cose che appaiono frivole, a prima vista – hanno inciso sulla fragilità di questa grande artista, sulla ricca e tormentata intimità di Sylvia Plath. Il mese a New York, il giugno del 1953, è emblematico e ci aiuta a inquadrare ancor meglio la sua figura, a comprendere la sua vita e visione del mondo, il suo percorso che finì a soli 30 anni.
IL LIBRO
Sylvia Plath, Quanto lontano siamo giunti.
Lettere alla madre (Guanda)