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LO STRAPPO NEL CIELO DI CARTA. LUIGI PIRANDELLO

Non è più tempo di scrivere nemmeno per scherzo, dice Luigi Pirandello.
Perché? Perché Maledetto sia Copernico! 

Perse le certezze fondamentali, quelle dell’uomo antico e rinascimentale, al centro del proprio universo, cosa si può fare? Ben piccola cosa è l’uomo, un’entità minima e trascurabile e le sue imprese non hanno alcun significato se paragonate all’immensità che lo circonda. Perché raccontarle, allora? Per distrarsi, risponde Pirandello.

Oggi ricorre l’anniversario della nascita dello scrittore, drammaturgo e poeta siciliano (Agrigento, 28 giugno 1867 – Roma, 10 dicembre 1936) e abbiamo scelto di tornare sulle pagine famose di Il fu Mattia Pascal, in particolare su una scena del capitolo XII: Anselmo Paleari, portavoce dello scrittore, e Mattia Pascal-Adriano Meis sono a teatro. Sul palcoscenico gli attori sono marionette automatiche, la tragedia rappresentata è quella di Oreste.


La  tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette! – venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. – Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis”.

“La tragedia d’Oreste?”

“Già! D’après Sophocle, dice il manifestino. Ora senta un po’  che bizzarria mi viene in mente ! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei”.

“Non saprei”, – risposi, stringendomi ne le spalle.

“Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo”.

“E perché?”

“Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi si penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta”.


 

La tragedia greca è stata la messa in scena del conflitto e l’assenza di via d’uscita, l’impossibilità di dare una risposta univoca alle domande dell’uomo. E sul palco, di fronte ad Adriano Meis, è sottoposta a un duplice straniamento: è affidata a marionette e queste marionette sono automatiche. L’arte tragica è ridotta a un meccanismo grottesco. Anselmo Paleari, portavoce della filosofia di Pirandello, invita Meis allo spettacolo ed è lui a porre la bizzarra domanda.

Se la superficie del teatrino si squarciasse allora Oreste sarebbe distratto dai suoi intenti e rivolgerebbe la sua attenzione ad altro. Il figlio di Agamennone diventerebbe Amleto, scisso e autoanalitico, tormentato dalla propria coscienza, agitato da dubbi e incertezze. Quello strappo fa sì che ogni cosa si riveli fittizia, pura rappresentazione. Tutto il mistero del teatro antico svanisce, il suo potere e la sua forza.

L’immagine della marionetta rimane impressa nella mente di Meis. Invidia quelle teste di legno: il loro cielo non si è strappato e le incertezze non sono giunte a dare il tormento. Il suo invece sì. E allora perché si scrive? Perché l’uomo ha bisogno di distrarsi dallo strappo nel cielo di carta. E può farlo riconoscendo che, nonostante l’infinita vanità del tutto, proprio non essendoci un ordine e una verità al di là della sua volontà, è libero. Tutto può essere creato.