ELIZABETH BISHOP, L’ARTE DI PERDERE
La poesia è l’arte di far entrare il mare in un bicchiere diceva Italo Calvino. E di poeti vi parliamo spesso: la vita e le opere di Amelia Rosselli e Dario Bellezza, le lettere di Allen Ginsberg, Guido Gozzano con le sue farfalle, Emily Dickinson sulle montagne e Sylvia Plath a New York. Ogni lunedì facciamo entrare il mare in un bicchiere, parlandovi di una poesia e di un poeta. Cominciamo oggi, con Elizabeth Bishop.
Elizabeth Bishop è nata a Worcester nel 1911 e morta a Boston nel 1979. È considerata una dei poeti più raffinati in lingua inglese del XX secolo. La poesia che abbiamo scelto si intitola L’arte di perdere (One art):
L’arte di perdere non è difficile da imparare;
così tante cose sembrano pervase dall’intenzione
di essere perdute, che la loro perdita non è un disastro.
Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta il turbamento
delle chiavi perdute, dell’ora sprecata.
L’arte di perdere non è difficile da imparare.
Pratica lo smarrimento sempre più, perdi in fretta:
luoghi, e nomi, e destinazioni verso cui volevi viaggiare.
Nessuna di queste cose causerà disastri.
Ho perduto l’orologio di mia madre.
E guarda! L’ultima, o la penultima, delle mie tre amate case.
L’arte di perdere non è difficile da imparare.
Ho perso due città, proprio graziose.
E, ancor di più, ho perso alcuni dei reami che possedevo, due fiumi, un continente.
Mi mancano, ma non è stato un disastro.
Ho perso persino te (la voce scherzosa, un gesto che ho amato). Questa è la prova. È evidente,
l’arte di perdere non è difficile da imparare,
benché possa sembrare un vero (scrivilo!) disastro.
Alcune cose sono fatte per esser perse, scrive il poeta. E la loro perdita, quindi, non è un problema. Ci abituiamo alla perdita prima smarrendo piccoli oggetti – le chiavi di casa, per esempio – e ci abituiamo a perdere sprecando un po’ di tempo qua e là.
Perdere può diventare un’abitudine e pure un vizio, e così saremo pronti a perdere cose più importanti.
E infatti ciò che si perde diventa sempre più significativo. Perdiamo ciò che desideriamo invece ricordare: nomi di persone, nomi di luoghi, e poi oggetti più specifici come un orologio appartenuto alla propria madre. Ma l’arte di perdere è possibile impararla davvero? Davvero riusciamo a dimenticare? Il poeta sta elencando troppi oggetti, riempie la poesia di così tanti pensieri.
Se è possibile enumerare puntualmente tutte le cose perse, forse non sono perse del tutto.
Pratica lo smarrimento sempre più, perdi in fretta dice il poeta. Così quando smarrirai l’oggetto più significativo, quello che porta in sé i ricordi, il tuo talismano, non sarà difficile andare avanti. Eppure, leggendo, sembra che l’arte di perdere sia invece difficile da imparare.
E infatti Bishop prosegue con l’elenco: ha perso l’ultima o la penultima delle sue tre amate case. Ha perso due città, ha perso alcuni dei reami che possedeva, due fiumi e un continente. Come la regina di un territorio misterioso, Bishop ha perso il suo potere. Che quei reami di cui parla non siano l’infanzia e la giovinezza, per esempio? Quando enumera questi luoghi sembra star parlando proprio di parti intere della sua vita, per sempre perdute. Ma ne conosce ancora i confini.
Il climax costruito da Bishop esplode nel finale: l’arte di perdere va esercitata soprattutto per dimenticare una persona amata. Si rivolge a questo qualcuno dicendogli “Ho perso persino te” e ricorda la voce e un gesto particolare, squisitamente suo e di nessun altro.
Quell’imperativo “Scrivilo!“, nel finale è la spia del fallimento: con la perdita è difficile venire a patti. La soluzione per dimenticare è un paradosso, rivela Elizabeth Bishop: per dimenticare è necessario ricordare.
Ricordare di dimenticare ogni giorno.
Immagine: Elizabeth Builes