A COSA SERVE LA SOLITUDINE. PAVESE, PASCAL, BISHOP, KEATS E FRANZEN

Tutto il problema della vita è questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri. Ma non solo: Tutti i problemi dell’umanità derivano dall’incapacità dell’uomo di sedersi tranquillamente in una stanza da solo. Le parole di Cesare Pavese e Blaise Pascal ci suggeriscono quanto sia problematica la doppia faccia della solitudine. La solitudine sembra è difficile da raggiungere come le cose preziose, ma al contempo è terrificante. La solitudine è un rischio, ma esiste una  solitudine produttiva utilissima a realizzare i nostri sogni.

Cosa rende rischiosa la solitudine? La paura, per esempio, che i nostri pensieri più intimi affiorino e si facciano vedere. Le paure, i desideri, le mancanze. Succede fin da quando si è bambini: soli nel letto dopo la favola della buona notte e ogni altro momento di attesa, un’attesa che verrà colmata, ma mai definitivamente. La solitudine tornerà, può esser placata solo per qualche attimo. Se si dà retta ai poeti e agli scrittori, la solitudine pare l’unico modo, però, per immaginare e scrivere. Lo dice Susan Sontag: La solitudine serve a vedere meglio. Lo dice Keats: La solitudine è il solo modo per riconoscere verità e bellezza. Se troppa solitudine può isolarci e mettere a repentaglio il nostro rapporto con il mondo, allora è necessaria una danza tra lo star soli e lo stare con gli altri.

Esploriamo la solitudine in compagnia di tre voci:


1. ELIZABETH BISHOP (Worcester, 1911 – Boston, 1979)

In una lettera a Robert Lowell scrive che la solitudine, come tutte le cose buone, è nutriente solo con moderazione. L’eccesso può nauseare. Confessa di fuggire, talvolta, da essa, attraverso conversazioni con altre persone, per proteggersi, ma non è convinta di questa scelta: la solitudine le causa una sofferenza di cui sente il bisogno.


2. JOHN KEATS (Londra, 1795 – Roma, 1821)

Per il poeta inglese la strada sacra per l’amore e la bellezza passa attraverso le porte di solitudine. Alla solitudine ha dedicato questa poesia:

Solitudine, se vivere devo con te,
Sia almeno lontano dal mucchio confuso
Delle case buie; con me vieni in alto,
Dove la natura si svela, e la valle,
Il fiorito pendio, la piena cristallina
Del fiume appaiono in miniatura;
Veglia con me, dove i rami fanno dimora,
E il cervo veloce, balzando, fuga
Dal calice del fiore l’ape selvaggia.
Qui sarei felice anche con te. Ma la dolce
Conversazione d’una mente innocente, quando le parole
Sono immagini di pensieri squisiti, è il piacere
Dell’animo mio. E quasi come un dio l’uomo
Quando con uno spirito affine abita in te.


3. JONATHAN FRANZEN (Western Springs, 1959)

Nella recensione al libro di Sherry Turkle Reclaiming conversation, che trovate qui, lo scrittore americano parla della “social solitude”, ovvero di ciò che succede oggi: L’io amabile e idealizzato che hanno creato con i social media lascia ancora più isolato il loro io reale. Comunicano incessantemente, ma hanno paura delle conversazioni faccia a faccia; sono preoccupati, spesso in modo nostalgico, di tralasciare qualcosa di fondamentale. La conversazione è il principio organizzativo della Turkle, perché gran parte degli elementi costitutivi dell’umanità è a rischio quando la sostituiamo con la comunicazione elettronica. La conversazione presuppone solitudine, per esempio, perché è nella solitudine che impariamo a pensare per conto nostro e sviluppare un senso stabile dell’io, elemento essenziale per accettare gli altri così come sono.