ANTONIA POZZI. LEGGO LE PAROLE DEI POETI PER CAPIRE IL MIO CUORE E QUELLO DEGLI ALTRI
Anch’io non ho radici
che leghino la mia
vita – alla terra –
anch’io cresco dal fondo
di un lago- colmo
di pianto.
La prima raccolta di Antonia Pozzi, Parole, viene pubblicata dal padre dopo il suicidio della figlia, avvenuto il 3 dicembre 1938, in una gelida giornata d’inverno, nei prati presso l’abbazia di Chiaravalle. La raccolta, elogiata da Eugenio Montale e dalla critica, tradisce però il pensiero e il mondo poetico della poetessa, perché piena di tagli e omissioni, laddove un riferimento, un verso, sembrava tradire la memoria che la famiglia voleva costruire della giovane donna.
Per leggere l’opera di questa poetessa, così presto dimenticata, bisogna aspettare il lavoro di una suora, Onorina Dino, che cominciò agli inizi degli anni Ottanta a documentarsi intorno ai manoscritti di Antonia Pozzi, per ricostruirne la forma originale. Onorina Dino si prese cura dell’intera opera, da Parole in poi. Sono più di trent’anni di lavoro che hanno portato alla luce anche diari, epistolari, tesi di laurea, e anche le fotografie, altro importante metodo espressivo di Antonia.
Il volume a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino, Poesia che mi guardi (Luca Sossella Editore, 2010) è l’edizione giusta per esplorare il mondo poetico di Antonia Pozzi. Abbinato al libro, il documentario di Marina Spada, che si apre con le immagini della Milano di oggi e con queste parole della poetessa:
Le mie parole sono le immagini, immagini per non sentirmi estranea, per darmi un motivo nel mondo. Leggo le parole dei poeti per capire il mio cuore e quello degli altri.Â
Nata in una famiglia milanese abbiente, ricca, il padre avvocato e simpatizzante del regime, la madre contessa, Antonia studiò al liceo Manzoni e poi si iscrisse alla Statale di Milano per studiare filologia. Lì strinse amicizia con il poeta Vittorio Sereni ma soprattutto, al liceo, si innamorò del suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi. La famiglia, naturalmente, osteggiò il loro rapporto e costrinse i due ad allontanarsi. La natura diventò presto il suo rifugio, natura sempre presente nelle sue poesie, un rifugio dal proprio ambiente familiare ma anche dal mondo che la circondava. Il suo sguardo si incupì molto presto. Poco prima di suicidarsi scrisse all’amica Elvira Gandini:
Perché e così: prima si sbaglia, ci si perde, ci si arrampica per astratte impalcature intellettuali, finché la vita un bel giorno comincia, coi suoi gesti leggeri e sapienti, a richiamarci a lei: è come aprire gli occhi ad un tratto e ritrovarsi su una striscia di prato al sole, vicino alle pietre e alle piante. Il senso della vita non è più sparso, nel cervello, nelle mani, negli occhi, ma è tutto raccolto nel centro del petto, come un enorme fiore o come una corazza: e il domani non è più che portare sempre più in avanti quel fiore, sereni, eretti, per una grande strada bianca.
Quando Antonia Pozzi decide di non portar più nel petto quel fiore, quando la serenità l’abbandona del tutto e al suo posto invece avverte una mortale disperazione, è mattina e nevica. Lei raggiunge l’abbazia di Chiaravalle in bicicletta e si siede poco lontano da un corso d’acqua, con sé ha delle pasticche, barbiturici. Si sdraia sulla neve, aspetta. Non muore subito, ma poche ore dopo, il padre dice a tutti che si tratta di polmonite e a lungo cerca di nascondere lo scandalo del suicidio. E le opere di Antonia rimangono inedite per molto tempo, fino a quel volume, Parole, però manipolato, fino al lavoro di Onorina Dino.
Vi consigliamo, oltre al volume Poesia che mi guardi (Luca Sossella Editore, 2010), anche il film presentato all’ultimo TFF, intitolato semplicemente Antonia, esordio del regista Ferdinando Cito Filomarino. Qui la recensione e qui sotto il trailer.
Alcune poesie di Antonia Pozzi:
VOCE DI DONNA
18 settembre 1937
Io nacqui sposa di te soldato.
So che a marce e a guerre
lunghe stagioni ti divelgon da me.
Curva sul focolare aduno bragi,
sopra il tuo letto ho disteso un vessillo –
ma se ti penso all’addiaccio
piove sul mio corpo autunnale
come su un bosco tagliato.
Quando balena il cielo di settembre
e pare un’arma gigantesca sui monti,
salvie rosse mi sbocciano sul cuore:
che tu mi chiami,
che tu mi usi
con la fiducia che dai alle cose,
come acqua che versi sulle mani
o lana che ti avvolgi intorno al petto.
Sono la scarna siepe del tuo orto
che sta muta a fiorire
sotto convogli di zingare stelle.
PRATI
Milano, 31 dicembre 1931
Forse non è nemmeno vero
quel che a volte ti senti urlare in cuore:
che questa vita è,
dentro il tuo essere,
un nulla
e che ciò che chiamavi la luce
è un abbaglio,
l’abbaglio estremo
dei tuoi occhi malati –
e che ciò che fingevi la meta
è un sogno,
il sogno infame
della tua debolezza.
Forse la vita è davvero
quale la scopri nei giorni giovani:
un soffio eterno che cerca
di cielo in cielo
chissà che altezza.
Ma noi siamo come l’erba dei prati
che sente sopra sé passare il vento
e tutta canta nel vento
e sempre vive nel vento,
eppure non sa così crescere
da fermare quel volo supremo
né balzare su dalla terra
per annegarsi in lui.
INCANTESIMI
22 dicembre 1935
Alti orli ghiacciati
si disfecero al mondo.
Solcava
lenta e lieve la barca
laghi d’oro,
andando così noi nel sole
abbracciati.
Gracili reti bionde
imprigionavano l’ora.
E nacquero brividi;
crebbero
voci tristi;
fischiò
a sponda il dilacerarsi delle canne.
Belve chiare
guardarono dal folto
a lungo
il tramonto nell’acqua,
andando così verso l’ombra
io libera
e sola per sempre.