Anna Achmatova ritratto

ED È CADUTA LA PAROLA DI PIETRA. ANNA ACHMATOVA

Suo padre, leggendo le prime poesie, la chiamò “decadente”. Anna Achmatova non volle usare il suo cognome, Gorenko: scelse quello della bisnonna, una principessa tartara, secondo la leggenda di famiglia. Era una donna molto desiderata e carismatica, una donna alta, estremamente magra, elegante. Portava i capelli lunghi e lisci legati in una coda che le cadeva sulla spalla, aveva zigomi alti, grandi occhi grigi, labbra sottili e naso aquilino. Il suo sguardo era singolare, misterioso. E quando recitava le proprie poesia era capace di un fascino incredibile, un’icona di bellezza, Achmatova, che molti pittori hanno ritratto.


 

Achmatova disegno Modigliani

Achmatova disegno Modigliani

Anna Achmatova in un disegno di Amedeo Modigliani


San Pietroburgo è stata la sua città, amata e rimpianta. Ha vissuto lì il periodo intenso dell’avanguardia, l’amore e la libertà, ma anche quello tetro della carestia, del dolore, della povertà e della malattia. Centro culturale della Russia, San Pietroburgo era popolata di artisti. C’era un locale seminterrato, The Stray Dog Café, luogo d’incontro per scrittori e poeti russi, come Gumilëv, marito di Anna, e Mandel’štam. Come cani randagi, leggevano i propri illeciti componimenti, discutevano di letteratura. C’erano anche Marina Cvetaeva, Boris Pasternak, Sergéj Esénin.


 

achmatova


Quando suo figlio Lev venne arrestato nel 1938Anna Achmatova bruciò i suoi quaderni di poesie. Da allora in poi, ha memorizzato tutto quello che ha scritto, per recitarlo in seguito, soltanto in letture private, con amici fidati. Gumilëv era stato assassinato per una presunta cospirazione anti-bolscivica. Imparare a memoria le proprie poesie cambiò anche il suo stile, che divenne più frammentario e visivo. Una strategia per salvaguardare la memoria collettiva del suo popolo. Mentre cresceva la sofferenza della sua gente anche la voce di Anna diventava più forte. Ha vissuto la caduta dell’impero, la Rivoluzione d’Ottobre e le due guerre mondiali. Ha perso molti dei suoi amici. Fu messa a tacere nel 1924 e non pubblicò nulla fino al 1940.

Morì vicino a Mosca il 5 marzo 1966, a Domodedovo, e fu sepolta nel cimitero di Komarovo, a San Pietroburgo. Le sue poesie sono diventate molto popolari, intime e infelici. Poema senza eroe è uno dei suoi componimenti più famosi, trascorse 22 anni a scriverlo. Requiem, contenuto nella raccolta, racconta la sofferenza del popolo russo sotto il regime di Stalin e,in particolare, le tribolazioni di quelle donne che, come Anna, si mettevano ogni giorno in fila fuori delle mura della prigione, pazienti, per avere notizie dei propri cari. Impotenti, portavano con sé un pezzo di pane e un messaggio per figli e mariti, amanti. Requiem non fu pubblicato in Russia fino al 1987.

Requiem
No, non sotto un estraneo cielo,
Non al riparo d’ali estranee:
Ero allora col mio popolo,
 dove il mio popolo, per sventura, era.1961*

In luogo di prefazione
Nei terribili anni della “ezovscina” ho trascorso diciassette mesi a fare la coda presso le carceri di Leningrado. Una volta un tale mi “riconobbe”. Allora una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me, e che, certamente, non aveva mai udito il mio nome, si ridestò dal torpore proprio a noi tutti e mi domandò all’orecchio ( tutti parlavano sussurrando): – Ma lei può descrivere questo? E io dissi: – Posso. Allora una specie di sorriso scivolò per quello che una volta era stato il suo volto.I aprile 1957. Leningrado*
Dedica

Davanti a questa pena s’incurvano i monti,
Non scorre il grande fiume,
Ma tenaci sono i chiavistelli del carcere,
E dietro ad essi le “tane dell’ergastolo”
E una mortale angoscia.
Per chi spiri il vento fresco,
Per chi sia delizia il tramonto,
Noi non sappiamo, siamo ovunque le stesse,
Sentiamo solo l’odioso strider delle chiavi
E i passi pesanti dei soldati.
Ci si alzava come a una messa mattutina,
Si andava per la capitale abbandonata,
 ci s’incontrava, più inanimate dei morti,
Il sole più in basso e più nebbiosa la Neva,
Ma la speranza canta sempre di lontano.
La condanna… E subito sgorgano le lagrime,
Ormai divisa da tutti,
Come se con dolore la vita dal cuore le strappassero.
Come se con rozzezza la rovesciassero indietro,
Ma cammina… Barcolla… Sola…
Dove sono ora le amiche occasionali
Di questi due miei anni maledetti?
Che appare loro nella bufera siberiana,
Che balugina nel disco lunare?
A loro invio il mio saluto d’addio.

Marzo 1940

*

Introduzione

Ciò accadde allorché a sorridere
Era solo chi è morto – lieto della pace.
E, appendice inutile, si sbatteva
Leningrado intorno alle sue carceri.
allorché, impazzite di tormento,
Condannate
 ormai andavano le schiere
E breve canzone di distacco
I fischi cantavano delle locomotive.
Stelle di morte incombevano su noi
E innocente la Russia si torceva
Sotto sanguinosi stivali
E copertoni di neri cellulari.

*

1.

Ti hanno portato via all’alba,
Io ti venivo dietro, come a un funerale,
Nella stanza buia i bambini piangevano,
Sull’altarino il cero sgocciolava.
Sulle tue labbra il freddo dell’icona.
Il sudore mortale sulla fronte… Non si scorda!
Come le mogli degli strelizziululerò
Sotto le torri del Cremlino.

1935. Mosca (Kutaf’ja)

*

2.

Placido scorre il placido Don,
Gialla luna entra nella casa.

Entra col cappello sulle ventitré,
Vede l’ombra la gialla luna.

Questa donna è malata,
Questa donna è sola,

Il marito nella tomba, il figlio in prigione.
Pregate per me.

*

3.

No, non sono io, è qualcun altro che soffre.
Io non potrei esser così, ma quel che è successo
Neri drappi lo ricoprano,
E portino via le lanterne…
Notte.

*

4.

Se mostrato t’avessero, burlona
E prediletta fra tutti gli amici,
Di Carskoe Selo’ allegra peccatrice,
Quel che sarebbe della tua vita:
Startene, col pacco,
Trecentesima sotto le Croci
E con le tue lagrime cocenti
Sciogliere dell’anno nuovo il ghiaccio.
 si dondola il pioppo del carcere,
E non un suono – ma quante
Incolpevoli vite vi hanno fine…

*

5.

Diciassette mesi che grido,
Ti chiamo a casa.
Mi gettavo ai piedi del boia,
Figlio mio e mio terrore.
Tutto s’è confuso per sempre,
E non riesco a capire
Ora chi sia belva e chi uomo,
E se a lungo attenderò l’esecuzione.
E solo fiori polverosi, e il tintinnio
Del turibolo, e le tracce
Chissà dove nel nulla.
E diritto negli occhi mi fissa
E una prossima morte minaccia
L’enorme stella.

*

6.

Lievi volano le settimane,
Quel che è stato non capisco.
Come ti guardavano, figlio,
Le notti bianche, in carcere,
Com’esse di nuovo guardano
Con occhio ardente di sparviero,
E della tua alta croce
E della morte parlano.

1939

*

7.

La sentenza

Ed è caduta la parola di pietra
Sul mio petto ancor vivo.
Non è nulla, vi ero preparata,
Ne verrò a capo in qualche modo.

Ho molto da fare, oggi:
Bisogna uccidere fino in fondo la memoria,
Bisogna che l’anima si pietrifichi,
Bisogna di nuovo imparare a vivere,

Se no… L’ardente stormire dell’estate,
Come una festa oltre la finestra.
Da tempo avevo presentito questo
Giorno radioso e la casa vuota.

1939. Estate

*

8.

Alla morte

Tu lo stesso verrai – perché non subito allora?
T’aspetto – ho molta pena.
Ho spento la luce e aperto l’uscio
A te, così semplice e prodigiosa.
Prendi per questo l’aspetto che vuoi,
Penetra come un proiettile avvelenato
O furtiva avvicinati come un esperto bandito,
O avvelenami col delirio del tifo.
O con una storiella da te inventata
E a tutti nota fino alla nausea,
Ch’io veda l’azzurra sommità del berretto
E il capofabbricato pallido di paura.
Ora tutto è uguale per me. Turbina lo Enisej,
Brilla la stella polare.
E l’estremo terrore offusca
Il bagliore turchino degli occhi adorati.

19 agosto 1939. Casa delle Fontane

*

9.

La follia ormai con la sua ala
Ha coperto una metà dell’anima.
E un vino di fuoco mesce
E in una nera valle invita.

E ho compreso che ad essa
Devo cedere la vittoria,
Prestando ascolto al mio delirio
Come se ormai fosse di un altro.

E nulla essa mi consente
Di portare via con me
(Per quanto la si implori
E la si annoi con le preghiere):

Né gli occhi spaventosi di mio figlio –
Pietrificata sofferenza -,
Né il giorno in cui venne la bufera,
Né l’ora della visita in prigione,

Né il caro refrigerio delle mani,
Né le ombre agitate dei tigli,
Né un lieve suono di lontano –
Le parole dei conforti estremi.

4 maggio 1940. Casa delle Fontane

*

10.

La crocifissione

Non singhiozzare per Me, Madre, che giaccio nella bara.

I.

Il coro degli angeli glorificò l’ora solenne
E i cieli si sciolsero nel fuoco.
Al Padre disse: “Perché Mi hai abbandonato?”
E alla Madre: “Oh, non singhiozzare per Me…”

II.

Maddalena si disperava e singhiozzava,
Il discepolo prediletto era impietrito,
 dove in silenzio stava la Madre
Nessuno osava neppure volgere lo sguardo.

1940-1943

*

Epilogo

I.

Ho appreso come s’infossino i volti,
Come di sotto alle palpebre s’affacci la paura,
Come dure pagine di scrittura cuneiforme
Il dolore tracci sulle guance,
Come i riccioli da cinerei e neri
D’un tratto si facciano d’argento,
Il sorriso appassisca sulle labbra rassegnate,
E in un ghigno arido tremi lo spavento.
E non per me sola prego,
Ma per tutti coloro che erano con me, laggiù,
Nel freddo spietato, nell’afa di luglio,
Sotto la rossa muraglia abbacinata.

II.

S’è di nuovo avvicinata l’ora del suffragio.
Vi vedo, vi ascolto, vi sento:

E colei che fu a stento condotta allo spioncino,
E colei che non calpesta il suolo natale,

E colei che, scrollando la bella testa,
Disse: “Qui vengo, come a casa”.

Avrei voluto chiamare tutte per nome,
Ma hanno portato via l’elenco, e non so come fare.

Per loro ho intessuto un’ampia coltre
Di povere parole, che ho inteso da loro.

Di loro mi rammento sempre e in ogni dove,
Di loro neppure in una nuova disgrazia mi scorderò,

E se mi chiuderanno la bocca tormentata
Con cui grida un popolo di cento milioni,

Che esse mi commemorino allo stesso modo
Alla vigilia del mio giorno di suffragio.

E se un giorno in questo paese
Pensassero di erigermi un monumento,

Acconsento ad esser celebrata,
Ma solo a condizione di non porlo

Né accanto al mare dov’io nacqui:
Col mare l’ultimo legame e’ reciso,

Ne’ del giardino dello zar presso il desiato ceppo,
Dove l’ombra sconsolata mi cerca,

Ma qui, dove stetti per trecento ore
E dove non mi aprirono il chiavistello.

Perche’ anche nella beata morte temo
Di dimenticare lo strepito delle nere “marusi“,

Di dimenticare come sbatteva l’odiosa porta
E una vecchia ululava da bestia ferita.

E che dalle immobili palpebre di bronzo
Come lagrime fluisca la neve disciolta.

E il colombo del carcere che tubi di lontano,
E placide per la Neva vadano le navi.

1940. Marzo