ABSOLUTELY NOTHING COPERTINA FOTO

QUINDI HO CERCATO DI FOTOGRAFARE IL TEMPO? ABSOLUTELY NOTHING DI GIORGIO VASTA

Oggi vi parliamo di un libro tanto atteso. Si tratta di Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani. L’ha scritto Giorgio Vasta, le fotografie sono di Ramak Fazel. È pubblicato da Humboldt Books in coedizione con Quodlibet. La copertina è blu, spessa, severa e ruvida, il titolo rosso.

Leggendo ci siamo fermati a lungo sull’ultima frase di pagina 30.
L’ultima frase è Mi incanto.

La parola “incantare” rimanda al vaticinare, al compiere incantesimi, dentro c’è “cànere” che in latino significa “cantare” e il carme latino è anche formula magica, quella degli indovini che si servivano della parola cantata, dei versi, per evocare “mali spiriti” e operare nel soprannaturale. Incantare è anche guardare l’animo di qualcuno, sorprenderesbalordire per la meraviglia.

E l’incanto è la postura con cui ci si dispone a leggere questo libro che è un diario di viaggio, una minuziosa ricognizione lunga ottomila chilometri, quelli percorsi dallo scrittore, dal fotografo e da Giovanna Silva, editore responsabile del progetto, attraverso California, Nevada, Arizona, New Mexico, Texas e Louisiana.

L’incanto del libro è la possibilità – non immaginaria ma pratica, fisica – di poter mettere il piede esattamente nell’orma dello scrittore che racconta. Dove lui ha fermato lo sguardo, allora chi legge può fare lo stesso, dove lui ha fermato il passo allora chi legge si ferma, con esattezza. La corrispondenza tra parole e materia narrata è cronometrica. Ma non solo.

Absolutely Nothing arriva sei anni dopo Spaesamento (Laterza, 2010) e otto anni dopo Il tempo materiale (minimum fax, 2008). In mezzo c’è Presente (Einaudi, 2012, con Paolo Nori, Michela Murgia e Andrea Bajani). Come nei precedenti libri, l’esattezza vorace dello scrittore obbliga chi legge a un salto, a un volo. Un volo in una costellazione altra di significati. Quello che fa Giorgia Vasta è cercare – attraverso il  linguaggio – la mappa originaria, terrena, materiale. E poi – sempre attraverso il linguaggio – far percepire la sfasatura, lo strappo, l’incongruenza.

Ripercorrendo a memoria le pagine dei libri di Giorgio Vasta ci viene in mente un passaggio di Absolutely Nothing, a pagina 25. È un dialogo tra lo scrittore e Silva che contiene il tema centrale del libro e, forse, chissà, della ricerca dello scrittore. È il 5 ottobre, Vasta, Ramak e Silva sono diretti verso il Selton Sea, che non è un mare ma un lago della California meridionale. La jeep su cui viaggiano si inabissa nel fango, devono aspettare qualcuno che possa aiutarli. E – nello spazio di tempo inaspettatamente conquistato – lo scrittore guarda.

A quel punto mi sono seduto su questa roccia e mi sono messo a fissare poco più in là il corpo dell’ennesimo pesce naufragato nella sabbia. A prima vista la solita concrezione fusiforme di linee intricante in cui c’è qualcosa del pettine, della radice e del dendrite. Stavolta però non smetto di guardare. (…) Mentre tiro fuori dalla tasca il telefono e scatto un foto, Silva si separa dal gruppo e viene a sedersi accanto a me.
Hai visto quel pesce?, dico indicando il corpo cristallizzato.
Silva si piega in avanti, dopo qualche secondo si risolleva.
Non è un pesce, dice.
Come no?
Guarda lì, fa lei.
Seguo il dito, guardo.
Vedi?
Quel sasso?
Vedi che proietta l’ombra?
In effetti subito sotto un lato del sasso c’è un orlo scuro; Silva mi guarda, io non capisco.
Quello che tu chiami pesce non ha ombra, dice. Perché non c’è nessun pesce. (…)
Quindi non è un fossile, dico tornando a sedermi sulla roccia.
In senso tecnico no, risponde lei. (…) Ma è qualcosa che del fossile svolge la funzione. Qualcosa, aggiunge sorridendo appena, che ci viene voglia di fotografare.
Ho fatto la foto perché–
Non ti sto criticando, mi interrompe lei. L’hai fatto perché lo desideravi.
Certo, dico impercettibilmente risentito.
E il tuo desiderio ha a che fare con il tempo.
Col tempo?
Quella, dice indicando la sagomina vuota, è una sfasatura temporale.
Guardo l’impronta, poi Silva.
La dimostrazione che il mondo non è per intero sincronizzato con il cosiddetto presente, continua lei, ma conserva zone in cui il tempo trascorre in altro modo o non trascorre o addirittura torna indietro.
Allora ha senso se tutto quello che c’è qui mi fa pensare alla preistoria? (…)
Ha senso, acconsente Silva. Ed è tra le ragioni per cui viaggiamo. Sei – siamo – in cerca della sfasatura, dell’alterazione, del graffito in cui il tempo si sfoglia come una cipolla rivelandoci il suo nucleo. Che non è tanto il passato ma qualcosa di così vertiginoso da non ammettere parole. (…)
Quindi ho cercato di fotografare il tempo?
Senza necessariamente saperlo.
D’istinto?
Semmai per un presentimento.

Qui potete leggere una lunga intervista a Giorgio Vasta.


Il libro
Giorgio Vasta, Ramak Fazel
Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani
(Humboldt, Quodlibet)

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