JOSÉ SARAMAGO. NEI MIEI ROMANZI L’AMORE È SEMPRE POSSIBILE
José Saramago nasce in una povera famiglia di braccianti. Abbandona il liceo, frequenta un istituto tecnico per diventare perito meccanico, non si è mai iscritto all’Università. Il suo paesino d’origine è Azinhaga, dove sorge oggi, proprio al centro, nella piazza, una grande statua che ricorda il cittadino illustre, nato lì nel 1922 e morto a Tías il 18 giugno 2010. Ad Azinhaga si dice che suo nonno, prima di morire, abbracciò tutti gli alberi del cortile di casa.
Fin da ragazzino ha desiderato scrivere. Leggeva prendendo in prestito molti libri nelle biblioteche pubbliche di Lisbona, dove i genitori si erano trasferiti in cerca di lavoro. Lui stesso lavorava, come meccanico e poi come impiegato. Lo racconta lui stesso a Juan Arias, scrittore anch’egli e giornalista, corrispondente dall’Italia di Pueblo e El País in una lunga intervista pubblicata da Frassinelli e intitolata José Saramago. L’amore possibile.
È il libro di cui vi parliamo oggi e che abbiamo riletto in vista del reading da Cecità. Sì, il primo giorno del festival Torino Spiritualità, mercoledì 28 settembre, al Teatro Carignano l’attrice Angela Finocchiaro ci porterà dentro il capolavoro dello scrittore portoghese.
Si intitola L’amore possibile perché Saramago afferma che nei suoi romanzi l’amore è sempre possibile, ma anche perché se l’amore è un miracolo, la letteratura e la poesia, e in modo particolare la forte letteratura di Saramago, possono essere in grado di rendere l’amore non sempre impossibile.
Vi raccontiamo parte dell’intervista attraverso cinque temi chiave:
1. I lettori
Non voglio che i miei lettori sappiano ciò che so di me. Tra me e loro ci sono i miei libri. Naturalmente sono in corrispondenza con molti lettori che mi scrivono e a cui rispondo, ma non per indurli a comprendere e capire delle parti di me. (…) Non ho nulla da dire ai lettori al di là di quella comprensione della mia persona che abbiano tratto dalla lettura dei miei libri. Non ritengo che ci sia altro da aggiungere, perché in tal caso qualcosa mancherebbe nei libri che ho scritto e se manca ci sarà un buon motivo. A volte, quando finisco di leggere certe lettere dei lettori, mi accorgo che sto piangendo.
2. La famiglia
I miei genitori mi amavano moltissimo e non c’è niente di strano, forse, però ci sono alcune cose che mi hanno condizionato. Con mio padre il rapporto è stato buono, ma su certi punti è come se non fossi mai riuscito a conoscerlo. Ho in proposito una sensazione particolare: viviamo con i nostri genitori un giorno dopo l’altro e improvvisamente se ne vano e ci accorgiamo di non essere riusciti a conoscerli. Alla fine non siamo riusciti a sapere chi fossero.
3. L’infanzia
Amavo la solitudine e mi piaceva fermarmi a guarda qualcosa, una lucertola che se ne stava lì, o un uccello, o nulla, amavo starmene seduto in riva al fiume, uccidere qualche rana. Mi piacevano molto tutte queste piccole cose, la sensazione del fango sui piedi nudi. È strano come di quel tempo mi sia rimasta impressa una cosa così banale come la sensazione del fango fra le dita dei piedi.
4. Stile letterario
Stavo scrivendo il romanzo sui contadini dell’Alentejo. Nel 1976 mi ero recato in quella zona per raccogliere dati, non avevo le idee molto chiare. Dopo tre anni di dubbi non sapevo ancora come affrontare il tema che, a prima vista, aveva molti punti in comune con quello che viene definito il neorealismo letterario. Ma non volevo ripetere qualcosa che, in un cento qual modo, potesse esser già stato fatto. Allora cominciai a scrivere, come fanno tutti, con un canovaccio, con i dialoghi, con la punteggiatura convenzionale, seguendo la norma. Arrivato alla venticinquesima pagina, senza rendermene conto, cominciai a scrivere legano, connettendo tra loro discorso diretto e indiretto, trascurando tutte le regole sintattiche o molte di esse. Se avessi scritto un romanzo in ambiente urbano non sarebbe successo, ma avevo raccolto il materiale in un ambiente, quello contadino, in cui parte della cultura è trasmessa oralmente. La gente racconta le sue storie, e a quei tempi ancora di più perché erano quasi tutti analfabeti. Passando da una forma narrativa all’altra era come se restituissi a quei contadini ciò che essi mi avevano dato, come se fossi diventato uno di loro.
5. Felicità
Mi lascia indifferente il concetto di felicità, ritengo più importanti serenità e armonia. Il concetto di felicità presuppone che uno sia contentissimo, che se ne vada in giro ridendo, abbracciando tutti, dicendo sono felice, che meraviglia. È chiaro che anche un mal di denti gli toglierà la gioia e, quindi, la felicità. Penso che la serenità sia una cosa diversa. La serenità ha molto dell’accettazione, ma include anche un certo autoriconoscimento dei propri limiti. Vivere in armonia non significa non avere conflitti, ma poter convivere con gli stessi serenamente. Non voglio elevarmi per esempio, ma io vivo in armonia con l’ambiente.
L’ultima cosa che Saramago ha scritto sul suo blog, prima di morire a Tias, a Lanzarote, là dove si è svolta l’intervista di cui vi abbiamo parlato, un paesino della minuscola isola dell’arcipelago delle Canarie è questa: Penso che la società di oggi abbia bisogno di filosofia. Filosofia come spazio, luogo, metodo di riflessione, che può anche non avere un obiettivo concreto, come la scienza, che avanza per raggiungere nuovi obiettivi. Ci manca riflessione, abbiamo bisogno del lavoro di pensare, e mi sembra che, senza idee, non andiamo da nessuna parte.
Il libro
Juan Arias, José Saramago, L’amore possibile (Frassinelli)