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I VERI FILOSOFI VIVONO COME CANI. PAROLA A FELICE CIMATTI

Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche. Genesi 2 (19-20)

L’uomo guarda gli animali, li osserva, li scruta con sguardo incuriosito, stupito, addirittura invidioso. L’uomo ha bisogno dello sguardo degli animali, ha bisogno di tale sguardo perché in esso può trovare la conferma della propria centralità nel mondo, della propria superiorità rispetto a tutte le altre creature.

Gli animali invece non ci guardano, gli animali si mostrano del tutto indifferenti alla nostra presenza, che essa sia una presenza costante, entro le mura di una casa, o una breve sosta di fronte alla gabbia di uno zoo. La nostra presenza non suscita interesse negli animali, e se anche un barlume di curiosità affiora nello sguardo di un animale alla vista di un uomo, esso cessa di esistere dopo appena pochi istanti. Gli animali non ci guardano. Non hanno bisogno di noi.

Se ci illudiamo invece che non sia così, che i nostri fedeli animali domestici ci amino e ci osservino costantemente con affetto e devozione, dobbiamo innanzi tutto precisare che gatti e cani non sono buoni esempi di animali. Essi sono infatti costruzioni artificiali dell’essere umano, frutto di artificiose selezioni e modificazioni dell’essenza animale, di cui quasi non rimane più nulla in questi esseri.

Gli animali domestici vengono infatti ridotti a creature simili agli esseri umani e dunque privati dell’alterità che è ciò che contraddistingue l’animalità.

Se diciamo che i gatti sono simili a noi, vuol dire che non li stiamo pendendo in considerazione, perché in realtà essi non ci assomigliano e, ancor peggio, vuol dire che stiamo dando per scontato che essi vogliano essere simili a noi.

Ma in realtà, noi non diciamo esattamente che gli animali sono come noi, diciamo che sono quasi come noi. Perché noi ci riteniamo superiori a loro. E la nostra superiorità deriva sostanzialmente dalla nostra capacità di parola: noi, solo noi, abbiamo il diritto alla parola.

L’animale, che parola! L’animale è una parola che gli uomini si sono arrogati il diritto di dare. Si sono dati la parola per raggruppare un gran numero di viventi sotto un solo concetto: L’animale dicono loro. E si sono dati questa parola accordandosi nello stesso tempo tra loro per riservare a se stessi il diritto alla parola, al nome, all’attributo al linguaggio delle parole e in breve a tutto ciò di cui sono privi gli altri esseri, quelli che sono raggruppati nel gran territorio della bestia: L’animale. Jaques Derrida, L’animale che dunque sono

Ma se ci crediamo superiori a loro, perché abbiamo così tanto bisogno che ci guardino? Che si interessino a noi? 

Perché forse infondo il vero problema non è se gli animali ci guardano, si tratta di qualcos’altro, si tratta di sopportare la nostra irrilevanza nel mondo.

E dunque, secondo Cimatti, la filosofia dell’animalità è la filosofia della nostra irrilevanza nel mondo. 

Gli unici veri filosofi sono i cinici: perché il cinico vive come un cane. Diogene ha vissuto come un cane e, come afferma Foucault, ha vissuto una vita vera.


Costanza Franceschini
, 21 anni, studentessa di Comunicazione Interculturale presso l’Università di Torino, interessata ai temi delle differenze culturali e dei flussi migratori, vorrebbe proseguire i propri studi nell’ambito dell’Antropologia Culturale. Da due anni si dedica allo studio della lingua e della cultura cinese.