animali vestiti da uomini

TOGLIERSI LA MASCHERA DELLA NOSTRA UMANITÀ. LA LEZIONE DI DE WAAL E VALLORTIGARA

Se da bambini ci avessero chiesto cosa pensavamo degli animali non avremmo saputo dare una risposta precisa. Avremmo saputo cosa significa provare tenerezza, affetto, avremmo sorriso davanti a un cucciolo ma avremmo sempre percepito una certa differenza tra il goffo cagnolino che muove i primi passi e quell’io bambino che si lascia incantare. Quella sensazione di distanza ci accompagnerà per vari anni, supportata da una constatazione dei sensi che indica diversità, nell’aspetto, nelle abitudini, a volte nelle espressioni.

Crescendo però spesso ci apriamo ad altre possibilità, quelle proposte da chi non si vuole limitare alla percezione dei sensi ma vuole andare oltre le conclusioni più intuitive. È certo che i principali animali che hanno suscitato in noi grande meraviglia sono le scimmie, antropomorfe e non. Sono loro che ci hanno messo in discussione come animali e come uomini. Come animali perché la loro esistenza ci fa porre domande sulla nostra storia evolutiva, come uomini perché mette in discussione quella onnipotenza antropocentrica che per molto tempo ha separato noi da loro, la cultura dalla natura, la bestialità dall’umanità.

Se a ben guardare poco ci cambia se condividiamo il 98% o l’1% dei nostri geni con quelli degli scimpanzé, la vera differenza non l’ha fatta l’evoluzione ma il modo in cui quei geni sono utilizzati. La questione allora si concentra tutta su quella seconda questione: esiste un confine tra uomo e animale? Per questo tipo di indagine, noi uomini abbiamo trovato un metodo: individuare ciò che di più umano crediamo di possedere e andare a ricercarlo anche nelle altre antropomorfe e non.

Questo semplice presupposto sta alla base di tutte le ricerche di primatologia, che oggi vedono maggiore notorietà negli esperimenti di Frans De Waal. Le questioni sono tante e le indagini vanno in varie direzioni ma quella che sicuramente affascina di più è la domanda: anche le scimmie antropomorfe hanno una coscienza di sé? Cioè, anche le scimmie antropomorfe sanno di esistere a questo mondo oltre la mera percezione sensoriale? Sembra che uno specchio possa dimostrare che sia così. Una macchia toccata, guardata allo specchio (perfino assaggiata nel caso degli elefanti, ma questo è un altro discorso) e altre evidenze sembrano suggerire che la risposta giusta è si! Uno scimpanzé con una macchia colorata sul viso e posto davanti allo specchio avrà la stessa reazione di un bambino tra i 2 e i 4 anni: toccherà la macchia sul proprio viso e non sullo specchio, segno di una consapevolezza della propria esistenza.

Ma, c’è sempre un ‘ma’.

Se dobbiamo però essere pignoli potremmo anche trovare il pelo nell’uovo, un pelo umano in questo caso. C’è infatti una tendenza a porre al centro sempre il genere umano in questo tipo di studi: comportamenti di bambini o adulti diventano il termine di paragone per quello di scimpanzé e altri animali. Ma cosa sappiamo noi di quello che provano loro? Giorgio Vallortigara mette in campo questa pedina: se non possiamo fare esperienza di quello che prova un macaco rhesus come possiamo dire che ha consapevolezza di sé allo stesso modo di un uomo? 

Quindi sembra che il confine possiamo vederlo, perché malgrado noi siamo qui, animali che vivono con altri animali, le domande che ci poniamo sono tante e le risposte arrivano con difficoltà. Probabilmente siamo arrivati a un punto in cui ci stiamo rendendo conto che siamo a un nulla di fatto. O meglio, questo nulla di fatto sembra aleggiare sulle teste di chi non è mai stato a stretto contatto con grandi scimmie o altri animali per un lungo periodo e non ha mai avuto la ‘sensazione’ di scoprire, vedere negli occhi dell’altro qualcosa.

Allo stesso tempo c’è chi studia gli animali e che ci mostra esseri che ragionano, che preferiscono ciò che anche noi preferiamo, hanno capacità che anche l’uomo possiede lungo la sua storia ontologica e altre che non avrà mai. Dove sta allora la verità? Questo confine esiste o non esiste? A parte l’ovvia conclusione che siamo stati noi a tracciarlo, dovremmo probabilmente, prima di essere scienziati acculturati o grandi pensatori, essere grandi scimmie. Questo è il messaggio che ci lasciano De Waal e Vallortigara.

Ma se proprio non riusciamo a toglierci quella maschera di umanità autoreferenziale che ci permette di metterci sempre al centro di ogni discorso, dovremmo usarla allora equamente e in modo produttivo quando guardiamo agli altri animali. Il punto non è solo integrare l’animalità umana nel pensiero postmoderno, come vorrebbe Michel Maffesoli, ma guardare agli animali come facciamo con gli uomini. Come ci insegna la psicologia, noi siamo delle menti che guardano ad altre menti separate da noi. Sappiamo che esiste l’inganno ma non per questo crediamo che ci siano differenze sostanziali tra me che scrivo e voi che leggete.

Il confine non esiste ma lo si traccia perché non possiamo fare esperienza dell’altro. Così avviene nel rapporto uomo-uomo, perché non potrebbe avvenire anche nel rapporto uomo-animale? Il razzismo per molto tempo è stato giustificato dalla diversità solo esperienziale del colore della pelle, della forma del naso, delle abitudini alimentari. Cosa ci fa pensare che non stiamo facendo lo stesso con chi ha più peli di noi, denti più aguzzi e modi spesso meno gentili?


Carola Tirrito, nata nell’86 a Palermo, si trasferisce a Torino per studiare Antropologia culturale ed etnologia. Si interessa in particolare di studi antropologici ed evolutivi della religione.