IL SENSO DI UNA FINE DI JULIAN BARNES IN 10 FRASI

Cosa succede alla memoria, come lavora, la memoria, per farci credere una cosa o l’altra?
Tony Webster è la voce narrante di questo magnifico romanzo, un uomo prudente, divorziato, è uno che ha imparato a rattopparsi i pantaloni, per intenderci.

Racconta di sé, della sua storia, della giovinezza, del suo primo amore. Ma poi succede qualcosa. È come uno strappo nel racconto,  Tony viene come interrotto: riceve un’eredità di £ 500 da qualcuno che non si ricorda bene chi sia. Ed è in quel momento che la sua memoria, che sembrava funzionare bene, si mette a lavorare davvero, si accanisce, insiste. Ma non basta.
Tony ha bisogno di capire che cosa è successo ma sembra non riuscirci, non riuscirci mai.

Il senso di una fine racconta la paura e il desiderio di avere a che fare con ciò che abbiamo rimosso, la curiosità che combatte con la preservazione. Con l’istinto al restare intatti, conosciuti a noi stessi. Fedeli all’idea che ci siamo fatti di noi, l’idea di noi che abbiamo costruito, accettando qualcosa, rimuovendo altro.

Ma è possibile dividere la propria routine quotidiana con il segreto di cui abbiamo intravisto solo una minuscola traccia, solo la coda, scomparire dietro l’angolo del muro? I segreti non si possono sopportare. I segreti, che si sono cristallizzati da qualche parte nella memoria, nel corso della vita, luccicano anche se sono potenzialmente affilati, anche se possono far male.

Queste 10 frasi dal libro.
Per il resto, andate in libreria
(così capite anche il perché del Millennium Bridge).

1. Esiste al mondo una cosa più ragionevole di una lancetta dei secondi? Ma a insegnarci la malleabilità del tempo basta un piccolissimo dolore, il minimo piacere. Certe emozioni lo accelerano, altre lo rallentano; ogni tanto sembra sparire fino a che in effetti sparisce sul serio e non si presenta mai più.

2. Dalle nostre letture dei classici sapevamo che l’Amore comportava la Sofferenza e ci saremmo volentieri allenati a Soffrire se ciò avesse comportato la tacita, perfino ragionevole promessa che prima o poi sarebbe arrivato l’Amore.

3. Mi direte, ma non erano gli anni Sessanta? Sì, ma solo per qualcuno, e solo in determinate zone del paese.

4. Io mi rifiutavo di considerare l’ipotesi che una donna volesse o potesse manipolare gli altri.

5. E se invece ricordassi le cose in questo modo per farle apparire così, per distribuire le colpe?

6. Credo tuttavia di avere attitudine alla sopravvivenza, all’autoconservazione. Forse è questo che Veronica chiamava codardia e io definivo essere pacifici.

7. Ora sono in pensione. Ho casa mia, ho le mie cose. Mi tengo in contatto con alcuni amici del pub, vedo qualche amica – faccende platoniche, si intende. Sono iscritto all’associazione archeologica locale, pur non condividendo l’entusiasmo di alcuni sulle meraviglie che un metaldetector è in grado di scovare.

8. Non è affatto vero che la storia è fatta delle menzogne dei vincitori, come sostenni una volta disinvoltamente, con il vecchio Joe Hunt; adesso lo so. È fatta più dei ricordi dei sopravvissuti, la maggior parte dei quali non appartiene né alla schiera dei vincitori né a quella dei vinti.

9. Poi però cominci a capire che la vita non promuove per merito.

10. Com’era la battuta di Adrian? “La storia è quella certezza che prende consistenza là dove le imperfezioni della memoria incontrano le inadeguatezze della documentazione”.


Il libro.
Julian Barnes, Il senso di una fine (Einaudi)

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