RILEGGENDO LA TREGUA. PRIMO LEVI
Il 31 luglio 2019 sono 100 anni dalla nascita di Primo Levi.
E noi riprendiamo in mano La tregua, scritto tra il 1961 e il 1962 e pubblicato l’anno successivo, testimonianza del viaggio di ritorno in Italia dopo Auschwitz: Avevo, del viaggio di ritorno, un puro appunto come dire, ferroviario. Un sorta di itinerario: il giorno al posto tale, al posto tal’altro. L’ho ritrovato e mi è servito come traccia, quasi quindici anni dopo, per scrivere La tregua.
Seguito ideale di Se questo è un uomo, ha un titolo parlante: Levi sceglie la parola “tregua“, non certo “pace” La tregua è un lasso di tempo determinato, limitato, confinato. Si tratta della “sospensione delle attività belliche per un dato tempo”. Questo perché il Lager è penetrato così in profondità nell’animo dei sopravvissuti da impedirne di uscirne realmente, di ritornare alle abitudini di una volta. Le leggi del Lager rimangono, leggi come questa, di sopravvivenza, che esposta al capitolo 4:
Fra le cose che avevo imparato in Auschwitz, una delle più importanti era, che bisogna sempre evitare di essere “qualunque”. Tutte le vie sono chiuse a chi appare inutile, tutte sono aperte a chi esercita una funzione, anche la più insulsa.
È impossibile uscire dalla “tregua”, o si è in guerra o si è nel Lager, ed è questa la sensazione dura che torna alla fine del libro, con il sogno ricorrente di Levi:
Tutto è volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager.
Questo il risvolto di copertina alla prima edizione Einaudi del 1963.
L’ha scritto Italo Calvino:
«La tregua, libro del ritorno, odissea dell’Europa tra guerra e pace, è il seguito di Se questo è uomo, il libro che resta fra i più belli della letteratura europea nata nei campi di sterminio. Se quel primo libro di Primo Levi (che continua a considerarsi “scrittore d’occasione” ed esercita la professione di chimico a Torino, dove è nato nel 1919) era stato scritto subito dopo il ritorno, quasi a scopo di liberazione interiore, come necessitaria testimonianza, per essere egli stato uno dei pochi ebrei sopravvissuti al Lager, e in obbedienza al bisogno urgente ed immediato “di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi”, questo secondo libro invece è stato scritto a distanza dagli avvenimenti, in un clima più pacato e disteso. E come il miracolo di Se questo è un uomo era una classica equanimità di fronte alla materia atroce del racconto, qui, nella Tregua, in questa storia movimentata e variopinta d’una non più sperata primavera di libertà, la nota più struggente è quella d’una stretta angoscia, d’una non più medicabile tristezza.
Seguiamo, ne La tregua, come l’avventura medio-europea di Levi non si conchiuse con la liberazione di Auschwitz per mano russa. Per ragioni mai chiarite appieno, o forse in virtù di pura negligenza o disordine burocratico, il rimpatrio di Levi, e di molti altri italiani con lui, ebbe luogo molto tardi, alla fine del 1945, dopo un lungo viaggio attraverso la Polonia, la Russia Bianca, l’Ucraina, la Romania e l’Ungheria. Questo volume è il diario del viaggio, che ha inizio nelle nebbie di Auschwitz, appena liberata e ancor piena di morte, e si dipana attraverso scenari inediti dell’Europa in tregua, uscita dall’incubo della guerra e dell’occupazione nazista, non ancora paralizzata dalle nuove angosce della guerra fredda: i mercati clandestini di Cracovia e di Katowice; gli acquartieramenti e le tradotte bibliche e zingaresche dell’Armata Rossa in smobilitazione; la terra russa sterminata, pervasa di gloria, di miseria, di oblio e di vigore vitale; paludi e foreste intatte; le baldorie corali dei russi ubriachi di vittoria; le camerate piene di sogni degli italiani sulla incerta via del ritorno.
Ritroviamo in questa pagine il gusto di Primo Levi per il ritratto conciso, sapido, alla maniera dei moralisti: il Greco, ligio al suo straordinario codice anarchico e mercantile; Cesare, “figlio del sole, amico di tutto il mondo”, che persegue con grande senso pratico i suoi propositi folli; il Moro di Venezia, il gran vecchio blasfemo che sembra uscito dalla Apocalisse; Hurbinek, il bimbo nato ad Auschwitz “che non aveva mia visto un albero”. Sotto questi due segni si svolge l’intero arco del libro: il perdurare, sotto cento aspetti palesi o segreti, “della pestilenza che aveva prostrato l’Europa”; e la scoperta di una nuova Russia, vista di prima mano e dal di dentro, volta a volta ridente o tragica, picaresca o epica o oblomoviana, lontana da ogni schematismo ideologico, assai più vicina alle rappresentazioni famose di Puškin, di Gogol e di Tolstoj».