A CHE SERVE LA LUCE? PASOLINI E LE CENERI DI GRAMSCI
Antonio Gramsci è morto a Roma il 27 aprile 1937. Al filosofo e politico sardo, vissuto a Torino, Pier Paolo Pasolini ha dedicato una delle sue poesie più belle, che dà il titolo alla raccolta pubblicata da Garzanti nel 1957. Sono Poemetti, 11 già state pubblicati, su riviste e plaquette tra il ’51 e il ’56. Le ceneri di Gramsci è la poesia che vi proponiamo oggi, Cinera Antonii Gramscii è l’iscrizione sulla lapide al Cimitero acattolico di Roma.
Originariamente apparsa su Nuovi Argomenti del novembre-febbraio 1955-56, racconta di una primavera romana sporca e impura: Non è di maggio quest’impura aria.
Il buio giardino straniero è proprio il cimitero acattolico e Pasolini comincia un colloquio immaginario con Gramsci, a lui si rivolge: Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore era ancora vita. Il maggio italiano è lontano, come l’ideale che illumina delineato da Gramsci, dalla sua magra mano. Tutto oggi è silenzioso, proprio come quel cimitero.
Il poeta, Pasolini, è troppo lontano da colui a cui dedica i suoi versi: attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione / la sua allegria, non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua / coscienza.
Quello che prova per il proletariato è un astratto amore.
Alla fine della lunga poesia, Pasolini si congeda: Me ne vado, ti lascio nella sera, denunciando una spaccatura insanabile, il popolo non si organizza, sopravvive nell’operare quotidiano. E come farà il poeta? Ma io, con il cuore cosciente/ di chi soltanto nella storia ha vita,/ potrò mai più con pura passione operare,/ se so che la nostra storia è finita?
Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l’abbagliacon cieche schiarite… questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno veloalle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio… Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,tra le vecchie muraglie l’autunnale
maggio. In esso c’è il grigiore del mondo,
la fine del decennio in cui ci apparetra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo…Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore,quanto meno sventato e impuramente
sano
dei nostri padri – non padre, ma umile
fratello – già con la tua magra manodelineavi l’ideale che illumina
(ma non per noi: tu morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell’umidogiardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi?, che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noiapatrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d’incudine
dalle officine di Testaccio, sopitonel vespro: tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiudela sua giornata, mentre intorno spiove.
IITra i due mondi, la tregua, in cui non
siamo.
Scelte, dedizioni… altro suono non hanno
ormai che questo del giardino gramoe nobile, in cui caparbio l’inganno
che attutiva la vita resta nella morte.
Nei cerchi dei sarcofaghi non fannoche mostrare la superstite sorte
di gente laica le laiche iscrizioni
in queste grigie pietre, cortee imponenti. Ancora di passioni
sfrenate senza scandalo son arse
le ossa dei miliardari di nazionipiù grandi; ronzano, quasi mai
scomparse,
le ironie dei principi, dei pederasti,
i cui corpi sono nell’urne sparseinceneriti e non ancora casti.
Qui il silenzio della morte è fede
di un civile silenzio di uomini rimastiuomini, di un tedio che nel tedio
del Parco, discreto muta: e la città
che, indifferente, lo confina in mezzoa tuguri e a chiese, empia nella pietà,
vi perde il suo splendore. La sua terra
grassa di ortiche e di legumi dàquesti magri cipressi, questa nera
umidità che chiazza i muri intorno
a smotti ghirigori di bosso, che la serarasserenando spegne in disadorni
sentori d’alga… quest’erbetta stenta
e inodora, dove violetta si sprofondal’atmosfera, con un brivido di menta,
o fieno marcio, e quieta vi prelude
con diurna malinconia, la spentatrepidazione della notte. Rude
di clima, dolcissimo di storia, è
tra questi muri il suolo in cui trasudaaltro suolo; questo umido che
ricorda altro umido; e risuonano
– familiari da latitudini eorizzonti dove inglesi selve coronano
laghi spersi nel cielo, tra praterie
verdi come fosforici biliardi o comesmeraldi: “And O ye Fountains…” – le pie
invocazioni…III
Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l’urna, sul terreno cereo,diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estraneimorti: Le ceneri di Gramsci… Tra
speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzialla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
di diverso, forse, di più estasiatoe anche di più umile, ebbra simbiosi
d’adolescente di sesso con morte…)
E, da questo paese in cui non ebbe posala tua tensione, sento quale torto
– qui nella quiete delle tombe – e insieme
quale ragione – nell’inquieta sortenostra – tu avessi stilando le supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.
Ecco qui ad attestare il semenon ancora disperso dell’antico dominio,
questi morti attaccati a un possesso
che affonda nei secoli il suo abominioe la sua grandezza: e insieme, ossesso,
quel vibrare d’incudini, in sordina,
soffocato e accorante – dal dimessorione – ad attestarne la fine.
Ed ecco qui me stesso… povero, vestito
dei panni che i poveri adocchiano in
vetrinedal rozzo splendore, e che ha smarrito
la sporcizia delle più sperdute strade,
delle panche dei tram, da cui stranitoè il mio giorno: mentre sempre più rade
ho di queste vacanze, nel tormento
del mantenermi in vita; e se mi accadedi amare il mondo non è che per violento
e ingenuo amore sensuale
così come, confuso adolescente, un tempol’odiai, se in esso mi feriva il male
borghese di me borghese: e ora, scisso
– con te – il mondo, oggetto non apparedi rancore e quasi di mistico
disprezzo, la parte che ne ha il potere?
Eppure senza il tuo rigore, sussistoperché non scelgo. Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando
il mondo che odio – nella sua miseriasprezzante e perso – per un oscuro
scandalo
della coscienza…IV
Lo scandalo del contraddirmi,
dell’essere
con te e contro te; con te nel core,
in luce, contro te nelle buie viscere;del mio paterno stato traditore
– nel pensiero, in un’ombra di azione –
mi so ad esso attaccato nel caloredegli istinti, dell’estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religionela sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza: è la forza originariadell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
a darle l’ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica: ed altro piùio non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia…Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi battoogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltantedei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la
storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:ma a che serve la luce?