PERCHÉ NESSUNO PENSA AI BAMBINI?

Stefano Benzoni, neuropsichiatra infantile, e Alberto Salza, antropologo culturale, sono due adulti. Però sono due adulti preoccupati. Guardano ai bambini come esseri limitati dalla società in cui vivono e dalle sue costruzioni culturali. L’infanzia diventa uno spazio stretto e liminale, continuamente stirato tra opposti a tratti grotteschi. Se da una parte ci si preoccupa di proteggerla dalla brutalità della realtà, racchiudendola così in un mondo di purezza depositario dei più sinceri valori di giustizia, dall’altra ci aspettiamo che i bambini diventino adulti velocemente, maturi soggetti delle azioni di marketing capaci di compiere scelte commerciali.

Ecco allora che i due autori si trovano d’accordo su un punto: probabilmente non ci si dovrebbe preoccupare dei bambini ma degli adulti. Alberto Salza si definisce un “orfano volontario” da quando ha scoperto in tenera età che i grandi rappresentavano un limite. Quando la sicurezza prevale sull’autonomia viene meno quella dimensione fondamentale che è l’educazione tra pari, le scorribande tra scalmanati.

“La bambinitudine non è quella vezzeggiata”

Stefano Benzoni esprime i suoi dubbi sull’idea di felicità proiettata dagli adulti sui loro figli e sui ‘fruitori’ di prodotti e spazi per l’infanzia. Si crea l’illusione che un’infanzia felice sia quella in cui non ci si annoia, in cui il tempo è continuamente occupato da attività interessanti. Peccato che questo sia il modello croce e delizia di ogni adulto che voglia sentirsi “figo” e non quello di e per un bambino che i fichi sa solo mangiarli. E anche in quel caso però una mano dall’alto non manca di intervenire: divertimento si ma deprivato dei surplus che lo renderebbero un godimento cattivo.

“Ci si preoccupa, come nell’apprendimento motivazionale, di non lasciare spazi vuoti, ma la crescita è come una conversazione: senza silenzi non si può parlare”

Il risultato? I bambini diventano un “altro ideale” da proteggere e tutelare dalla comunità che su di lui proietta tutto il potere del suo ordine simbolico e dei suoi problemi. Un gruppo chiuso, una dimensione definita da una distanza costruita che non riusciamo a colmare sebbene sia soltanto culturale. Probabilmente anche per questo ci si trova di fronte a incontrollate forme di ideologie del fanciullo, in cui stare giovani è auspicabile poiché c’è qualcuno che ti accudisce, malgrado diminuiscano le tue libertà.

La soluzione? La speranza, che “in senso politico si chiama rivoluzione, in senso psicoanalitico si chiama utopia e dal punto di vista delle persone si chiama responsabilità”. Essere consapevoli di tutti ciò che vomitiamo ogni giorno sulle spalle di questi virgulti investiti da tutta la nostra vita.

Carola Tirrito