COME CADE LA LUCE. IL NUOVO ROMANZO DI CATHERINE DUNNE
Lodata e amata, Roddy Doyle definisce la sua scrittura «appassionante, elegante, necessaria e autentica». È Catherine Dunne, scrittrice dublinese che ha esordito nel 1997 con La metà di niente, diventato subito best-seller internazionale. E noi stiamo leggendo Come cade la luce (Guanda) il suo ultimo libro, in attesa di lunedì 29 gennaio, ore 18, quando verrà a farci visita al Circolo dei lettori.
Bravissima a raccontare le vite di persone comuni, Catherine Dunne ha scelto questa volta di narrare di una madre severa e un padre comprensivo, di una sorella maggiore ribelle e di una minore fin troppo responsabile. Ogni luogo comune è ribaltato nella famiglia Emilianides, costretta a lasciare Cipro e a trasferirsi in Irlanda dopo il colpo di Stato del 1974. Perché loro sono così diversi da tutti gli altri? Per il trauma di un’esistenza interrotta, e ricominciata in terra straniera? O per via di Mitros, il secondogenito, segnato da una malattia che lo ha colpito a pochi mesi dalla nascita?
Di certo le due ragazze, Alexia e Melina, cercano disperatamente la normalità: una nelle fughe dell’adolescenza e poi in un matrimonio affrettato, l’altra nel rifiuto di ogni legame. Fino a quando non si sente costretta, dalla trama di affetti e mancanze che da sempre avvince la sua famiglia, ad accettare il più sbagliato di tutti. Sembra l’inizio di un destino di solitudine, se non fosse per un dettaglio: il filo teso tra le due sorelle non si può spezzare. Come cade la luce è un romanzo che interroga sull’inesorabile verità dei sentimenti.
Comincia così:
Ci sono tante cose che Melina ricorda. Tantissime.
Soprattutto il giardino. Ricorda bene quando dal soggiorno uscivano in quello spazio verde e profumato. La lavanda, la cui fragranza vibrava fin dal primo istante in cui mettevano piede sull’erba. Globi di allium ovunque: un’orchestra di sfumature, dal rosa pallidissimo al viola intenso. I susini lungo il muro del giardino, i boccioli primaverili, come un’esplosione sullo sfondo rosso scuro dei mattoni. E poi quelle enormi portefinestre così scomode che conducevano direttamente fuori casa. Porta che restavano spalancate per tutta l’estate, nonostante inaffidabile clima irlandese.
Allora era tutto più grande. Vivo. Ricco di possibilità.
“Che bell’arietta fresca, Mitros” diceva la mamma, rimboccando la coperta intorno a quel corpo morbido e cedevole. Membra troppo rilassate, una testa e un collo che parevano insostenibilmente pesanti, come se rischiassero di staccarsi dallo stelo delicato della spina dorsale. “E hai ragione, sai: quest’aria pulita e frizzante ti fa molto bene. È proprio quello di cui hai bisogno”.