BREVISSIMO RITRATTO DELLO SCRITTORE PIERO CHIARA

Da ragazzino, Piero Chiara era uno che marinava la scuola. Faceva fughino, come si dice, e se ne andava nelle biblioteche a leggere, oppure in palestra, a fare pugilato. I genitori per questo lo spedirono in collegio. Nonostante i risultati non eccellenti, riuscì a ottenere il diploma di perito meccanico e intanto continuava a coltivare la sua passione per i libri, che si portava in viaggio, a Roma e Napoli poi a Nizza e Parigi, dove prese a fare diversi lavori. Non partì militare nel 1931 perché miope e in questo periodo bighellonava tra caffè e sale da gioco, spesso a Milano, dove preferiva le sale di lettura di Brera. È in Friuli, a Cividale, dove si reca per lavoro, a incontrare scrittori e poeti, e pure a Varese – dove viene mandato perché sorpreso con una donna nel posto di lavoro – che si interessa a Baudelaire e Rimbaud, ma anche a Boccaccio e comincia a scrivere sui giornali. Piero Chiara si sposò, il matrimonio fu breve. Quando la pressione fascista cominciò a farsi sentire, lo scrittore scappò in Svizzera, perché reo di aver chiuso il busto di Mussolini dentro la gabbia del tribunale in cui lavorava. Finita la guerra, Chiara diventa professore in un liceo svizzero, e comincia a dedicarsi alla scrittura. Tra i suoi romanzi ricordiamo Il piatto piange (1962), La spartizione (1964) e La stanza del vescovo (1976). Da La spartizione, Alberto Lattuada trasse il film Venga a prendere il caffè da noi con Ugo Tognazzi, nel 1970, dove Piero Chiara interpretò una parte.

Oggi, giorno in cui cade l’anniversario di nascita dello scrittore, 23 marzo 1913, vogliamo riprendere l’explicit di Il piatto piange, ambientato a Luino, sua città natale sul Lago Maggiore, durante il periodo fascista, ritratto della provincia in cui non c’è granché da fare. E infatti all’immobilità fa riferimento il titolo del libro, alla fissità delle vite di chi è rimasto a casa, e passa le giornate tra bar e bische clandestine, litigi e socialità obbligata e annoiata.

Si riprese a vivere senza sapere di vivere. Né il gioco né la guerra ci erano serviti a qualche cosa. Tutto era passato su di noi, da una primavera all’altra, senza lasciarci un segno di salvezza o di speranza. Di tutti quei giocatori, di tutta quella gioventù, non ci fu nessuno, tranne i morti, a cui riuscisse il sogno di evadere dal paese, di andarne fuori in ogni senso eppure di non perderlo, come non si può perdere la memoria dei primi anni di vita. I più lontani, quelli annidati in fondo alle Americhe o nel cuore dell’Etiopia, al pari di quelli che sono vicini, a Milano o in altri luoghi conosciuti, sentono di non essersi liberati da una specie di peso o di intoppo che la vita del paese ha lasciato in loro. Non si sa se questo sia un bene o un male. Si sa soltanto che è un velo oltre il quale potrebbe aprirsi la vera vita, se si potesse capire com’è la vera vita. Un poeta o un pittore che nascesse qui inosservato e prima di legarsi all’ambiente volasse via, forse troverebbe la strada della liberazione. Ci sarà qualcuno che l’ha trovata, come Bernardino che dipingendo in tanti luoghi diversi ha sempre ricomposto questo paesaggio, mescolandolo ad altre cose del mondo. Ci sarà certamente stato fra di noi, senza che ce ne accorgessimo, qualcuno a cui è riuscito di evadere in un modo che a nessun altro è mai stato possibile. Lo aspettiamo di ritorno, un giorno o l’altro, perché ci racconti la sua storia.