L’AMORE INFELICE DI CHARLOTTE BRÖNTE IN UNA LETTERA
Charlotte Brönte – l’amata scrittrice di Jane Eyre – si innamorò perdutamente di un professore, già sposato, che divenne protagonista del suo romanzo Il professore (Fazi). Nel libro è William Crimsworth il primo e unico narratore maschile utilizzato dalla scrittrice, che racconta in prima persona la sua storia: uomo sensibile e colto, fugge da un lavoro pesante e competitivo nella zona industriale dello Yorkshire e si trasferisce in Belgio per insegnare presso un istituto femminile. Qui conosce Frances Henri, studentessa indigente e particolarmente dotata della quale poco alla volta si innamora, corrisposto. Ma la coppia non avrà vita facile: saranno infatti molte le avversità che i due dovranno affrontare – a cominciare dall’aperta ostilità dell’astuta direttrice della scuola – prima di riuscire a coronare il loro amore. Come Villette, Il professore prende spunto dall’esperienza personale di Charlotte Brontë, che nel 1842, quando studiava il francese a Bruxelles, si innamorò del suo insegnante, Monsieur Héger, una relazione che non ebbe però un lieto fine. Ne è testimone questa lettera, che lei mandò a lui, e che vi proponiamo oggi.
Vogliate perdonarmi dunque, signore, se decido di scrivervi ancora. Come posso sopportare la vita se non cerco di alleviarne le sofferenze? So che vi spazientirete leggendo questa lettera. Direte ancora che sono un’esaltata, che ho pensieri cupi, eccetera. E sia pure, signore, non cerco di giustificarmi, accetto ogni rimprovero, io so soltanto che non posso, che non voglio rassegnarmi a perdere interamente l’amicizia del mio maestro, preferisco subire i più terribili dolori fisici piuttosto che avere il cuore lacerato da cocenti rimpianti. Se il mio maestro mi priva interamente della sua amicizia perderò ogni speranza, se me ne dà un poco (molto poco) sarò contenta. Felice. Avrò un motivo per vivere, per lavorare.
Dirò francamente che nell’attesa ho cercato di dimenticarvi, poiché il ricordo di qualcuno che si crede di non dover più rivedere e che tuttavia si stima molto tormenta troppo lo spirito, e quando si è stati vittime di tale inquietudine per uno o due anni si è pronti a tutto per ritrovare il riposo. Ho fatto di tutto, ho cercato di occuparmi, mi sono rigorosamente privata del piacere di parlare di voi anche a Emily, ma non ho potuto vincere i miei rimpianti né la mia impazienza; è molto umiliante non saper dominare i propri pensieri, essere schiave di un rimorso, di un ricordo, schiave di un’idea fissa e dominante che tiranneggia lo spirito. Perché non posso avere per voi soltanto l’amicizia che voi avete per me, né più né meno? Allora sarei tranquilla, libera. Potrei restare in silenzio sei anni senza sforzo.