EMILY DICKINSON SUL RICORDO E SULLA PERDITA
Le persone che amiamo, le amiamo per sempre, perché diventano una parte di noi, una parte fisica, abitano i nostri pensieri anche quando non ci sono più.
È il caso di Emily Dickinson e di sua madre, che perse a cinquantadue anni. Si chiamavano nello stesso modo e morì di un ictus che l’aveva già colpita otto anni prima lasciandola paralizzata. È stata una madre attenta, e amava moltissimo la figlia Emily, ma viveva nell’ombra del marito, tanto che la giovane scrisse: Non ho mai avuto una madre. Suppongo che madre sia colei da cui si corre quando si ha una pena.
Le poesie di Emily Dickinson sono dense di riflessioni sulla mortalità, immediate o meno, e la morte della madre costrinse la poetessa a confrontarsi con la morte in modo diverso: la perdita era diventata improvvisamente concreta, non astratta, simbolica e speculativa. Ne scrive, confessando che la perdita, sopraggiunta, l’ha scossa e ha stordito il suo spirito: sua madre è come scivolata via dalle sue dita, il vento l’ha raccolta, nessuno sa dove sia.
Emily Dickinson aveva cominciato a dubitare dell’immortalità fin da piccola, l’immortalità promessa dal dogma calvinista non la convinceva. E anche da adulta rifiutò la tradizione religiosa dell’epoca, non si unì mai a una chiesa, adottò una personale spiritualità.
Secondo la poetessa, chi perdiamo fa parte di noi, almeno un frammento, come una mezzaluna che si intravede nella notte. Ne conserviamo il ricordo, ricordo che lei descrive così, in una poesia del 1880, forse incompleta:
Non puoi far crescere il Ricordo
Quando ha perduto la Radice –
Consolidargli il Suolo intorno
E collocarlo eretto
Inganna forse l’Universo
Ma non recupera la Pianta –
La vera Memoria, come i Piedi del Cedro
È ferrata col Diamante –
Né puoi abbattere il Ricordo
Quando una sola volta sia cresciuto –
Le sue Gemme di Ferro spunteranno di nuovo
Anche se rovesciato –
Disperso – ucciso –