LE ANCELLE DI MARGARET ATWOOD
Il distopico The Handmaid’s Tale, Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood rifiuta di essere definito con un solo genere narrativo, piuttosto intreccia diversi approcci, allontanandosi dalla fantascienza più prevedibile, dal thriller o dal romanzo femminista: Atwood inventa uno stile unico, tutto suo e radicale.
È una lettura profonda e disturbante, in cui la scrittrice celebra la vita, quella piccola, fatta di istanti, ciò che resta alla protagonista del libro, June / Offred, ancella a cui la vita è negata. Ma può rintracciarla, senza sollievo duraturo, una crema per la pelle, l’odore di una sigaretta, e poi i ricordi: la figlia, il marito, e tutto ciò che c’era prima dell’instaurazione del regime di Galaad, la dittatura dei Comandanti depositari del potere, che hanno distrutto la libertà delle donne. E quindi anche le frivolezze del passato, e anche solo ricordate, come truccarsi gli occhi, le mode che vanno e vengono, gioielli e riviste, diventano sollievo per June, che immagina e sogna, quando ne ha la forza.
Il racconto dell’ancella è anche una grande narrazione orale, come le vecchie storie di resistenza tramandate, i racconti delle guerre antiche e delle battaglie. Laddove non c’è più nessuno a denunciare l’oppressione è l’individuo oppresso che si fa portavoce e denuncia con la propria storia. June è testimone oculare di ciò che è successo e deve per forza dire la sua verità, per chiarire le lacune, miti, errori e idee sbagliate, deve offrire una visione interna del cambiamento politico in corso, dei suoi effetti sui cittadini impotenti che subiscono la rivoluzione assassina e crudele dei Comandanti. E naturalmente il suo racconto contrasta con ciò che International Historical Association sta ricostruendo due secoli dopo.
Si dormiva in quella che un tempo era la palestra. L’impiantito era di legno verniciato, con strisce e cerchi dipinti, per i giochi che vi si effettuavano in passato; i cerchi di ferro per il basket erano ancora appesi al muro, ma le reticelle erano scomparse. Una balconata per gli spettatori correva tutt’attorno allo stanzone, e mi pareva di sentire, vago come l’aleggiare di un’immagine, l’odore acre di sudore misto alla traccia dolciastra della gomma da masticare e del profumo che veniva dalle ragazze che stavano a guardare, con le gonne di panno che avevo visto nelle fotografie, poi in minigonna, poi in pantaloni, con un orecchino solo e i capelli a ciocche rigide, puntute e striate di verde. C’erano state feste da ballo; la musica indugiava, in un sovrapporsi di suoni inauditi, stile su stile, un sottofondo di tamburi, un lamento sconsolato, ghirlande di fiori di carta velina, diavoli di cartone e un ballo ruotante di specchi, a spolverare i ballerini di una neve lucente.
Sesso, solitudine, attesa di qualcosa senza forma né nome.
Proprio come una moderna Cassandra, June si sente come costretta a raccontare la propria storia, se non altro per alleviare la noia e la malinconia della sua esistenza. Nel suo racconto risuonano gli echi del Terzo Reich di Hitler, l’avanzata del fascismo, ma anche eventi realmente accaduti negli anni Ottanta in America, come se Margaret Atwood volesse dirci che le megalomanie di potere che in passato hanno dilagato, potrebbero tornare, specialmente nelle recrudescenze del fascismo nella sistematica oppressione dei deboli.
Esiste più di un genere di libertà, diceva Zia Lydia. La libertà di e la libertà da. Nei tempi dell’anarchia, c’era la libertà di. Adesso vi viene data la libertà da. Non sottovalutatelo.
Quello che fa June è confessarsi e anche liberarsi, guardandosi se stessa anche quando volge gli occhi attraverso la finestra della sua povera stanza, di notte, cercando di non impazzire, di rimanere fedele a se stessa. Anche nel mondo immaginato da Atwood, aspro e severo, in cui non hanno posto le donne, omosessuali, oppositori politici.
Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood è pubblicato da Ponte alle Grazie.