Come mai l’Unione Europea non sa unirsi davvero?

Il virus non ha stravolto la geopolitica. Non ha rivoluzionato le competizioni decisive del pianeta. Non ha introdotto novità strutturali nel modo in cui le potenze, grandi o piccole che siano, si danno battaglia. Ciascuno di noi si è chiuso in casa, restando solo con il proprio io, a fare i conti con le proprie forze e debolezze. Lo stesso a livello aggregato: le collettività non hanno mutato il proprio dna di fronte alla malattia, lo affrontano rivelando se stesse, le caratteristiche antropologiche che ne informano l’agire nel mondo, ciò a cui tengono, la capacità di reggere l’urto, le priorità da difendere a tutti i costi dalla sospensione delle umane attività. Nondimeno, pensare che tutto resterà intatto è pia illusione. Come illustriamo nel numero di “Limes” uscito in questi giorni, il morbo è un potentissimo acceleratore. Approfondisce le rivalità correnti, riporta in superficie vecchie faglie, strappa la crosta a ferite che si pensavano rimarginate.

Le potenze impegnate a cercare con maggiore determinazione di soddisfare i propri imperativi strategici non hanno interrotto il loro percorso. Anzi, in certi casi approfittano del caos per perseguirli con più audacia, ora che i riflettori puntano altrove. Così l’Iran attacca i militari americani in Iraq e nel Golfo e il Giappone inserisce nello stimolo economico misure per diminuire la dipendenza dalla Cina. La Turchia continua imperterrita le operazioni in Siria e Libia e la Russia insiste nel sostenere Damasco e i ribelli ucraini. Mentre lo scontro Cina-America si fa tellurico. La prima, che non denuncia alcun contagio tra le sue Forze armate, accresce le attività navali nei mari che rivendica suoi e attorno a Taiwan che vuol riprendere. Assistendo a una rabbiosa reazione da parte della seconda, non solo per il tentativo di Donald Trump di distrarre dalla sua pessima gestione dell’emergenza, ma sempre più convinta della malignità di qualunque azione di Pechino.

Nemmeno la geopolitica europea ha mutato pelle. Le questioni dirimenti sono tornate a galla, visibili a occhio nudo. L’Unione Europea si è dimostrata collezione di nazioni indisponibili a unirsi davvero. Si è nuovamente spaccata tra Nord austero e Sud spendaccione, riesumando gli stessi, identici stereotipi della crisi del 2011-12, dimostrando che le differenze economiche-finanziarie sono assai meno rilevanti di quelle culturali. Sull’impossibilità materiale di riportare ordine pesano due fattori, entrambi presenti da ben prima del virus e con esso manifestatisi platealmente. Il primo è la crisi d’influenza della Germania, incapace di dettare altra legge che non sia l’ortodossia economica e per nulla intenzionata a tradurre l’innegabile centralità commerciale in vero potere. Il secondo è la mancanza del collante degli Stati Uniti, che in questa crisi hanno visibilmente rinunciato a esercitare alcuna forma di egemonia che non sia quella militare (o violente), scoprendo il fianco nella loro sfera d’influenza europea a Cina e Russia, lasciate libere di segnare punti nella diplomazia degli aiuti.

In particolare in Italia, che si riscopre, sempre senza troppa consapevolezza, doppiamente centrale. Per l’Europa e per la competizione tra grandi potenze. Può far saltare l’euro e mandare in panne l’industria tedesca. Ed è ambita dai tre pesi massimi del globo, per le basi militari statunitensi che ospita, per i porti in cui i cinesi contano di far attraccare le vie della seta e per l’innata russofilia che ci vale le attenzioni di Mosca in disperata ricerca di amici. Duplice potere di ricatto da attivare immediatamente. Per salvarci dalla bancarotta. O, più prosaicamente, per non far perdere ulteriormente valore alle risorse di cui disponiamo. Più preziose di quanto siamo soliti raccontarci, privilegi che tantissimi altri soggetti non hanno. Ma non eterni.