Quando tutte le donne del mondo. Rileggendo Simone De Beauvoir
Ho cercato di tenere conto dei miti, e soprattutto di descrivere il modo in cui la società fabbrica le sue donne, scrive Simone De Beauvoir in Quando tutte le donne del mondo, pubblicato nel 1982. Perché, e lo dice nel suo famoso saggio Il secondo sesso, donne non si nasce, si diventa, e questo diventare donne è condizionato dalle definizioni, etichette, regole che gli altri, gli uomini, la società, hanno costruito nel corso della storia. C’è un ideale, e le donne, spesso, sono messe in relazione con esso. Le definizioni di come dovrebbero essere condizionano la loro vita, i gesti, i movimenti, i desideri.
Il testo è datato, ma evidenzia questioni anche ora attuali, anche se in misura diversa da quando scrive De Beauvoir.
E soprattutto ci ricorda quanto le conquiste in materia di libertà e uguaglianza siano un fatto recente. Qualche riflessione sparsa:
– Nella misura in cui una carriera si femminizza, si svaluta.
– Quando una donna non ha figli si dice “non è una vera donna”, con l’uomo non succede.
– Non so bene cosa faranno le donne elette (in politica) se non essere delle donne-alibi.
– Un individuo che ne chiami un altro “sporco negro” sarà condannato nei tribunali, ma se un uomo grida a una donna “puttana” non corre rischio. La nozione di ingiuria sessista non esiste.
Le donne, nel pensiero di De Beauvoir, devono muoversi insieme. L’hanno fatto e lo fanno. E il fine è quello di cambiare radicalmente la società. E la società cambierà quando tutte le donne del mondo riusciranno a comunicare, parlare, mettere in piena luce le scandalose verità che metà dell’umanità si sforza di dissimulare. Perché: Un giorno, neanche tanto lontano, le donne, veramente integrate nella società, mostreranno di che cosa sono capaci. Oggi sono ibridi. Ibridi con un senso di colpa. Vede, gli uomini non hanno scelta. Devono fare carriera. Per le donne, c’è sempre il dilemma: bisogna fare carriera? Bisogna occuparsi della casa, dei bambini? Per le donne, non ci sono abbastanza cose che “vanno da se”. Le donne si sentono colpevoli di tutto. Di lavorare. Di non lavorare.
Ci sono due categorie di donne: quelle per il quale il focolare è il centro del mondo, e le indipendenti, quelle che puntano soprattutto sugli interessi professionali. Queste ultime pensano continuamente: “Dovrei forse occuparmi di più della casa”. Oppure: “Dovrei sposarmi, avere bambini…”.
Ma neanche la casalinga è felice. Tempo addietro, pulire, cucinare, lucidare i pavimenti era per la donna un certo modo di dominare la materia. Oggi il focolare non è più un regno. La casalinga, abdicando alla sua libertà, non ha più l’impressione di realizzare un destino ineluttabile. Si interroga, dubita. Pensa con invidia all’ amica avvocatessa che è invece “qualcuno”.
Né quelle che stanno a casa, né quelle che lavorano trovano oggi nella propria condizione la piena realizzazione di sé. Ci sono anche quelle che tentano di superare la propria condizione scrivendo romanzi. Il romanzo scritto in casa non è forse un lavoretto femminile? Quante romanziere abbiamo! Uomini o donne, pensavo che ciascuno può cavarsela; non mi rendevo conto che la femminilità fosse una situazione.
Ho scritto tre romanzi, dei saggi, senza preoccuparmi della mia condizione di donna. Un giorno mi è venuta voglia di dare una spiegazione su me stessa. Ho cominciato a riflettere e mi sono accorta che la prima cosa che avrei dovuto dire era: sono una donna. L’intera mia formazione affettiva, intellettuale, è stata differente da quella d’un uomo. Ho riflettuto su questo e mi sono detta: bisognerebbe vedere sul piano generale, e nei particolari, cosa significa essere donna.