Guida ragionevole #11

Carrie & Lowell di Sufjan Stevens

Negli anni 2000 non è la cosa più facile al mondo riuscire ad affermarsi in maniera non banale nello sterminato e variopinto panorama musicale mondiale. Ma il 2015 fu comunque un anno straordinario in cui uscirono ottimi dischi, tra i quali il capolavoro Carrie & Lowell del songwriter Sufjan Stevens.

Il settimo disco di Sufjan Stevens è dedicato alla madre e al patrigno Lowell, fondatore insieme a lui della etichetta Asthmating Kitty per la quale è pubblicato questo album. Una madre che soffre di depressione ai limiti della schizofrenia, con problemi di dipendenza da alcol e droga, che abbandona Sufjan ancora bambino più volte, fino a quando un male incurabile la strappa via nel 2012 prima che potessero ricucirsi le cicatrici di quel distacco. Guardare in faccia la sua morte significa per Sufjan guardare in faccia il vuoto rimasto dentro di sé e il proprio disperato bisogno di senso.

11 tracce, 44 minuti, leggeri accordi di chitarra, una voce solista delicata e fiabesca, in un album sulla rielaborazione del lutto nella fase dell’accettazione.

Lontano dallo stereotipo del songwriter tutta voce e chitarra, impegnato soltanto nel recupero della tradizione folk/blues, Sufjan esordisce nel 1999 con l’album A Sun Come, raccolta di canzoni pop lo-fi composte al college, ma si fa notare poco più tardi con Greetings from Michigan, the Great Lake State, dedicato al luogo in cui è nato: il Michigan, appunto, e l’album è il primo lp di un progetto mai terminato e poi addirittura smentito, ossia un disco per ogni stato degli Usa.

Grazie al riscontro ricevuto Sufjan diviene presto uno degli artisti indie più seguiti e pubblica anche vecchi demo in Seven Swan. Nel 2005 esplode il successo con Come on Feel the Illinois, seconda tappa del suo ideale tour degli stati americani, dedicato allo stato del Illinois.

Sufjan Stevens collabora con The National, pubblica un disco di canti natalizi rivisitati e nel 2010 ritorna con The Age of ADZ, un disco con un impianto sonoro vintage più elettronico e schizofrenico.

Il 2015 è l’anno di Carrie & Lowell che, come ha dichiarò Sufjan a Pitchfork: «Con questo album avevo bisogno di uscire da questo ambiente ingannevole. È qualcosa che era necessario fare per me quando ho dovuto affrontare la morte di mia madre, per raggiungere un senso di pace e serenità piuttosto che di sofferenza. Non è un tentativo di dire qualcosa di nuovo o di dimostrare qualcosa, o di innovare. Può sembrare ingenuo, il che è positivo. Non è il mio progetto artistico; è la mia vita». E il gioco dei trasformismi lascia il posto alla carne e al sangue dell’esperienza.

Infatti il disco racconta della madre, del patrigno, della sua infanzia (non facile), dei viaggi in Oregon con la famiglia, delle emozioni e del bisogno di avere qualcuno accanto. A Sufjan Stevens non interessa più stupire, gli basta un rincorrersi cristallino di arpeggi, ad accompagnare la fragilità di una voce più indifesa che mai. Non è un disco immediato né dal punto di vista dei testi né da quello musicale, niente architetture barocche, niente trovate spiazzanti, per lo più brani acustici con qualche tastiera di sottofondo. Eppure, c’è una nudità senza precedenti.

Tra i brani che spiccano di più troviamo sul lato A: Death With Dignity, caratterizzata da una carezza di tastiere che sfiora i contorni della splendida melodia, la bellissima Should Have Known Better con un testo “doloroso” sugli abbandoni da parte della madre, insieme alle più acustiche All Of Me Wants All Of You e The only things. Il lato B parte con un ottimo brano Eugene, un fingerpicking che ricorda Ellioth Smith, dedicato ai frequenti viaggi in Oregon della famiglia di Sufjan.

Un disco che non punta alla commerciabilità, ma riesce comunque a essere completo e omogeneo, da ascoltare d’un fiato dalla prima all’ultima traccia. Il capolavoro di Stevens è in realtà un album confortante, di una dolcezza musicale lenitiva e accogliente. La morte viene riconsegnata al ciclo naturale della vita e Sufjan ci insegna che conta solo il qui e ora, l’instancabile riaffermarsi della bellezza.

Ogni cosa è illuminata.

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