La strategia della Germania al tempo del virus

La strategia geopolitica non può mai essere del tutto esplicita. Deve essere almeno in parte occultata al resto del pianeta, nemici o partner che siano.

Ciò è vero a maggior ragione per la Germania. Berlino deve celare la propria traiettoria ai vicini, con cui ha bisogno di condividere moneta e mercato unici mediante l’Unione Europea per scaricare il proprio surplus produttivo. Alla frammentata opinione pubblica interna, con i bavaresi o i brandeburghesi che non necessariamente approvano le idee dei renani dominanti. Agli Stati Uniti, protettore militare insostituibile ma ossessionato da una nuova ascesa tedesca. Infine pure a sé stessa: il rifiuto di esercitare influenza strategica è connaturato alla nazione germanica, ancora perseguitata dai fantasmi d’epoca nazista.
Fattori che rendono la Repubblica Federale un soggetto, oltre che cauto, difficilmente intelligibile.

Tuttavia, durante l’emergenza del coronavirus la Germania si è mossa con piglio inatteso. Sia sul piano interno sia su quello europeo.
Ha sospeso le politiche di austerità, finora garanzia della sua placida mentalità economicistica. Ha adottato la metà di tutti gli aiuti di Stato stanziati dai membri dell’Ue, mossa che permetterà ai suoi campioni di uscire rafforzati rispetto ai concorrenti continentali. Ha non solo evitato di tagliare il bilancio della Difesa ma addirittura protetto l’industria militare, novità per una nazione normalmente imbelle. Ha offerto copertura finanziaria agli Stati più indebitati benedicendo le iniziative della Banca centrale europea, peraltro sfidando apertamente la propria Corte suprema che le aveva messe in dubbio, assieme all’idea stessa di usare l’Ue per scopi d’influenza. Ha aperto il portafoglio per aiutare i paesi più colpiti dalla crisi economica a galleggiare, proponendo lei stessa di prediligere i trasferimenti a fondo perduto rispetto ai prestiti – manovra immediatamente condannata dagli Stati frugali, suoi satelliti che temono questo volto inedito di una Germania che speravano restasse innocua.

Soprattutto, manifesta la volontà di distanziarsi dagli Stati Uniti. Però ha riaperto il dibattito sulle testate nucleari a stelle e strisce sul suo suolo, strumento di difesa ma anche simbolo di subordinazione. E ha rifiutato di aderire alla campagna anticinese di Washington. Tasselli che, sommati all’atteggiamento più morbido nei confronti dell’Iran e all’asse energetico con la Russia fondato sul gasdotto Nord Stream 2, agli americani sanno tanto di neutralismo.
Non che si voglia gettare nelle braccia della Cina: manda infatti segnali di voler rimpatriare parte delle filiere produttive dall’Estremo Oriente (specie la farmaceutica) e inasprire la scure sugli investimenti sgraditi (primo fra tutti Huawei e il 5G). Però vuol farlo da una posizione mediana, non schierata. È lo stesso umore popolare a volerlo: la percentuale dei tedeschi che predilige Pechino è uguale a quella che preferisce Washington: 36% contro 37%. Un anno fa ammontava a meno della metà: 24% contro 50%. Semplicemente inaccettabile per gli Stati Uniti, il cui primato mondiale dipende dal controllo sull’Europa. Dunque sul decisivo spazio germanico.
Per questo l’amministrazione Trump ventila il ritiro di quasi diecimila militari e il trasferimento in Polonia delle armi atomiche. Minacce destinate a non realizzarsi per intero, perché ancora troppa è la paura degli apparati federali di fare un favore alla Russia. Ma segno di un rapporto compromesso. Trump o non Trump.

La Germania si sta muovendo senza un preciso disegno d’influenza sull’Unione Europea. Lo fa per salvarla dall’abisso, non per intestarsi un nuovo Reich. Non siamo di fronte a un momento rivoluzionario della geopolitica europea. Però la Repubblica Federale nel momento di crisi ha mostrato un’inedita, almeno nel dopoguerra, attitudine strategica. Difficilmente i suoi vicini lo accetteranno. Men che meno gli americani.

di Federico Petroni