Patrizia Cavalli e la misteriosa donna vestita di stracci nella Maestà barbarica

Per chi legge le sue poesie non ci sono dubbi: Patrizia Cavalli, nata a Todi il 17 aprile 1947, conosce la musica delle parole. Anche per Elsa Morante, che la scoprì e la spinse a pubblicare, incertezze non ce n’erano state: “Sono felice, Patrizia, sei una poeta” le disse, e non ci fu bisogno d’altro. La vera poesia sta in piedi da sola, basta leggerla, non ha bisogno di chiarificazioni, analisi, commenti o perorazioni avvocatesche, così quella di Patrizia Cavalli, un telaio di forme verbali che afferrano il pensiero nel momento in cui accade, o meglio lo inventano. 

Quando non fa le recite

o non scrive, si confeziona costumi

portentosi. Lei non segue la moda,

ma l’impone: vanno in molti a spiare

i suoi drappeggi, le cuciture a vista,

i tagli trasversali. La sua eleganza

è quasi una minaccia, passarle accanto

coi propri vestitucci un po’ si trema

e un po’ ci si vergogna. Io non oso parlarle,

ma la guardo, la guardo sempre,

discosta e laterale. Ogni giorno

ho bisogno di vederla, se non la vedo

la vado a cercare, se non la trovo,

provo paura e noia. Temo che muoia,

temo che scompaia.

Da Datura, raccolta di poesie pubblicata da Einaudi nel 2013, viene ‘La maestà barbarica’, uno dei poemetti più potenti che Cavalli abbia scritto. Ecco il ritratto di una mendicante semifolle in piazza Campo de’ Fiori a Roma, che fa pensare ai Tableaux parisiens di Baudelaire (forse, nella poesia moderna, il suo precedente più prossimo). Come Gozzano e Eliot, con la signorina Felicita e Alfred Prufrock, anche la Cavalli slitta dall’io al personaggio, componendo il destino di una musa arcaico-tragica. La sua ‘maestà barbarica’ senza scopo né meta sfida il senso comune arrivando a toccare tutti noi, in un modo o nell’altro, e senza spiegazione.