Breve storia della difficile vita editoriale di Beppe Fenoglio

Considerato oggi come uno degli scrittori più importanti del Novecento italiano, si festeggia quest’anno il centenario della sua nascita, si ricordano i suoi romanzi, dal Partigiano Johnny a Una questione privata, letti non solo per l’importante testimonianza storica ma anche per la scrittura innovativa, ancora attualissima, che strega i lettori del nostro secolo. Facile pensare che l’accoglienza che ricevette all’epoca fosse pari a quella che riceve ora. Niente di meno vero. La carriera autoriale di Beppe Fenoglio è costellata di molte delusioni che, da sole, potrebbero rincuorare gli animi degli scrittori che provano a farsi spazio nel mondo editoriale.

Dopo la sua esperienza nelle brigate partigiane nel 1944, prima nella brigata Garibaldi e poi nelle Formazioni Autonome Militari (i cosiddetti ‘badogliani’ o ‘azzurri’), Fenoglio lascia l’Università e comincia a lavorare in un’azienda vinicola di Alba, dove resterà tutta la vita.

Cinque anni dopo, il suo esordio: il racconto Il trucco, pubblicato sotto pseudonimo nei Pesci Rossi Bompiani. Subito, invia all’Einaudi anche I ventitré giorni della città di Alba e un romanzo, La paga del sabato, ricevendo il rifiuto di Elio Vittorini e il giudizio favorevole del complice che avrà per tutta la vita, Italo Calvino. Spinto dal suo nuovo sostenitore, si propone all’Einaudi come traduttore ma la sua richiesta di collaborazione non viene accolta con favore dalla redazione.

Nel 1952 Beppe Fenoglio tira un sospiro di sollievo. I ventitré racconti della città di Alba esce nei Gettoni Einaudi. Eppure, anche in questo caso, la gratificazione dura poco. Il volume viene recensito sull’Unità con una violenta stroncatura (il libro sarebbe stato addirittura, per l’estensore del pezzo, Carlo Salinari, “una cattiva azione”) a causa dell’immagine denigratoria della Resistenza che offrirebbe la raccolta. 

Due anni dopo, sempre nei Gettoni, esce la Malora e per Fenoglio è una catastrofe: nel libro un risvolto polemico di Vittorini (seppur direttore della collana) verso “i giovani scrittori dal piglio moderno e dalla lingua facile“, con riferimenti non poi così impliciti al suo lavoro. A questo, si aggiunge il parere dichiaratamente ostile del critico Domenico Porzio. Dopo questa terribile delusione, entra in contatto con Garzanti, con cui sottoscrive un opzione per cinque inediti aprendo le danze con il suo ultimo libro Primavera di bellezza (1959). Il libro vince il premio Prato, ma questa volta viene recensito con freddezza da Eugenio Montale, Oreste dal Buono e Anna Banti, fino a quel momento una fautrice.

Nel 1961 Fenoglio confessa: “Non so come farò ancora a scrivere, perché ormai mi sono imborghesito, vivo in casa con la moglie, la bambina. Starei qui, butterei tutto all’aria, anche i fogli su cui dovrei scrivere’”.

Nonostante le critiche continue e la nuova vita, qualcosa in lui sopravvive, e quel qualcosa prende la forma di una raccolta di racconti, Un giorno di fuoco, talmente amata da Calvino che vorrebbe mandarla al Premio Internazionale Formenton. Eppure anche qui la sfortuna fa capolino e manda all’aria tutto rendendo impossibile la pubblicazione presso l’Einaudi proprio a causa di quel contratto con Garzanti che Fenoglio aveva firmato pensando che fosse la cosa più giusta, un’ancora di salvezza. Italo Calvino, Citati e Bertolucci sono i protagonisti di una lunga trattativa che non porta alcun risultato positivo. Il libro rimane nel cassetto fino alla morte di Fenoglio che avviene il 17 febbraio 1963 per un cancro. Al suo funerale, dell’ambiente letterario, partecipa solo Calvino.

Nell’Aprile dello stesso anno Garzanti, vinto il contenzioso con Einaudi, pubblica Un giorno di fuoco. Nonostante una capziosa stroncatura di Pasolini, questa è l’unica volta in cui l’accoglienza della critica è quasi unanimemente molto favorevole.

Foto di Aldo Agnelli – Archivio Centro Studi Beppe Fenoglio