Goliarda Sapienza, la scrittrice che lottò contro tutti per vivere con gioia

Nata a Catania il 10 maggio 1929, Goliarda Sapienza cresce in una famiglia tutt’altro che convenzionale; i suoi genitori, suo padre avvocato e sua madre sindacalista, sono entrambi vedovi, con figli avuti da precedenti matrimoni, la sua è quindi una famiglia allargata, dove si respira un’aria socialista e progressista.

Goliarda non viene mandata a scuola come tutti gli altri bambini. I suoi genitori hanno troppa paura che le facciano entrare in testa idee sul regime fascista. Desiderano Goliarda lontana dell’influenza del pensiero unico di quegli anni e, più che a tutto il resto, ci tengono che sviluppi un modo di pensare tutto suo. Il primo romanzo Lettera aperta (Einaudi) racconta i suoi anni d’infanzia in Sicilia e si ha l’impressione, leggendolo, che Goliarda sia davvero cresciuta senza vincoli.

Lo scambio di idee in casa Sapienza è fitto, incessantemente i fratelli maggiori si confrontano con i genitori su temi riguardanti la politica, la letteratura e la filosofia, mentre la piccola Goliarda si aggira in quelle stanze piene di voci prendono un po’ di qua e un po’ di là, come stringesse in mano un retino per farfalle.

Dopo aver tentato la carriera d’attrice (a teatro recita Pirandello, al cinema interpreta una piccola parte in Senso di Visconti) decide di dedicarsi alla scrittura. Intanto si lega al regista Citto Maselli, e comincia a frequentare l’ambiente intellettuale di quegli anni, prendendo attivamente parte alla corrente del neorealismo italiano. Ma non si sente di appartenere per intero a un movimento, a un gruppo di persone con idee simili, se non le stesse: Goliarda difende la sua indipendenza intellettuale, anche a costo di essere guardata con sospetto, nel peggiore dei casi emarginata.

Un vulcano di eccentricità, un’originale per davvero, nel 1980 finisce in carcere per avere rubato oggetti e gioielli a casa di un’amica. Da questa esperienza prende forma L’università di Rebibbia (Einaudi)memoir della sua esperienza in prigione, al termine della quale Goliarda dirà d’essersi sentita più apprezzata dalle sue compagne di cella che dagli intellettuali italiani. Provocazioni, sì, ma giustificate. L’arte della gioia (Einaudi)considerato oggi il suo lavoro migliore, negli anni Sessanta viene rifiutato perchè giudicato immorale e troppo sperimentale, un lavoro confuso, scritto da una donna che si permetteva di dire la sua sul sesso, sugli uomini e sulle altre donne, senza temere di sbagliarsi.

Per Goliarda è un’urgenza, scrivere in quel modo è qualcosa di irrinunciabile : “come tutte le donne, essendo intelligente, dovevi esserlo più di un uomo; coraggiosa più di un uomo. Ma non si sfugge alla propria natura: puoi sì affamare, costringerla al silenzio anche per molto tempo; ma prima o poi la sua fame la spinge fuori coi denti, le unghie affilate e ti dilania le carni e le vene.”

Nella maniera in cui fluisce la sua prosa si avverte a ogni riga l’incapacità di trattenersi, di zittirsi per non scandalizzare, il bisogno assoluto di dire, costi quel che costi, la sua verità. L’arte della gioia esce postumo e ottiene un primo successo destinato a crescere. ”Si muore per lasciare il meglio di sé a quelli che ti hanno saputo leggere”, così scrive Goliarda.