Robert Bazlen: la misteriosa figura dietro l’Adelphi

Un primo dato indicativo: «Bobi stava al primo piano di Via Margutta 7», Roberto Calasso prosegue così nel tentativo di descrivere Robert Bazlen: «aveva un suo maglione norvegese marrone scuro, una tonalità attenuata dal tempo, che mi piacque subito. Non era l’uomo adatto per i preamboli. Subito parlava della traduzione, di Williams, dello stile della Campo».

Di Bobi non sappiamo quasi niente. Rimangono i suoi Scritti e i Quaderni, pubblicati da Adelphi, appunti un tempo annotati su foglietti di carta o su fogli strappati alla rinfusa dalla macchina da scrivere. Questi sono la testimonianza dell’esistenza del suo pensiero, una testimonianza parziale, dato che Bazlen (a quanto sta scritto in Bobi, il suo ritratto frammentato, scritto da Calasso, Adelphi, 2021) ha esercitato il suo pensiero letterario a tal punto da influenzare scrittori, critici, editori, portando in Italia opere straniere fondamentali e ancora del tutto ignorate in quegli anni.

Della sua vita privata, come della sua vita professionale, non sappiamo quasi niente, solo miti e leggende. Leggendo Bobi di Calasso sembra di mettere insieme i cocci di un’anfora greca, man mano che scorrono i brevi capitoli, viene fuori l’immagine di una figura, eppure, come capita in questi casi, tra i pezzi incollati rimangono dei vuoti. Un coccio non coincide perfettamente con l’altro. La figura si delimita comunque, ma si riesce a indovinare solo la natura dei contorni.

Con Bazlen, per la prima volta, Calasso ha l’impressione «di qualcuno che fosse riuscito a sbarazzarsi di tutte le idee correnti»; gli parla di René Daumal e Roger Gilbert-Lecomte, della rivista Le Grand Jeu, e di cose che «i giovani della sua età, nei primi anni Sessanta, erano ancora ben lontani dall’avvicinare» come Guénon, la metafisica orientale, il Vedanta accostato a Spinoza, lo stato di coscienza e l’illuminazione.

«A Roma, nell’ambiente, tutti conoscevano Bazlen, o pretendevano di conoscerlo.» Quelli appartenenti alla seconda categoria si riconoscevano subito; raccontavano aneddoti fumosi, si inventavano battute che Bobi avrebbe detto a quella cena o a quel rendez-vous; sempre imprecisi, disegnavano il loro anti-eroe. Elena Croce, Cristina Campo, Elsa Morante, Eugenio Montale, che invece lo conoscevano davvero, provavano per lui una grande ammirazione. Montale, terminata ogni raccolta, come prima cosa la affidava a Bobi. Si fidava della sua sincerità, del suo intuito infallibile, e, come uno in attesa del verdetto più solenne, aspettava un cenno, una frase (molto spesso i giudizi di Bazlen erano talmente precisi che bastava una frase) per capire se i suoi versi valevano qualcosa.

Nato a Trieste, il 10 giugno 1902, completamente autodidatta, già da ragazzino «aveva letto tutto ciò che di significativo appariva». Grazie a una perfetta conoscenza del tedesco, dell’inglese, del francese e dell’italiano, esplorò territori fino a quel momento inesplorati. In un periodo dove in Italia i più arditi si spingevano fino a Proust e Radiguet, Bazlen veleggiò lontano, fino a raggiungere Benn, Trakl, Svevo e parlando «di Kafka (già) nel 1925, quando Il processo, Il Castello e Il disperso non erano ancora stati pubblicati.

Alla sua morte, avvenuta nel 1965, segue un generale silenzio. Rotto da un articolo di Montale, che lo definisce «semplicemente un uomo a cui piaceva vivere negli interstizi della cultura e della storia», rivelando con quel semplicemente una volontà di relegare la figura di Bazlen ai margini della storia culturale, svelando forse un inconscia volontà di sminuire l’influenza che esercitavano su di lui i suoi giudizi. Sì, perché Bobi fu molto più di un uomo che amava nascondersi nella letteratura marginale, e gli autori che scoprì (oltre a quelli già citati, anche Musil, Altenberg e molti altri) hanno costituito un tesoro tutt’altro che sotterraneo.

E non è finita. Un’altra impresa che si può considerare compiuta da quest’uomo misterioso ed eccezionale fu Adelphi. Durante un incontro con Calasso, Bazlen parlò per la prima volta della casa editrice, dicendogli la famosa frase: «Faremo solo i libri che ci piacciono molto». Da lì, la storia comincia a delinearsi con l’edizione critica di Nietzsche, tanto voluta da Bobi, «con più di tremila pagine inedite e un grande sconvolgimento nell’impostazione». Nei ricordi dell’Adelphi dei primi tempi, dove veniva in visita Sergio Solmi e i titoli suggeriti venivano scritti su fogli gialli di carta velina, Bazlen è la figura chiave. Per lui, affinché un libro venisse messo in catalogo, era essenziale avere un’esperienza diretta dell’autore, un legame che esulasse dall’esterno, diventando «solitario e autosufficiente».

Solitario e autosufficiente rimase anche lui, fino alla fine. Ignorando tutte le dispute contemporanee, lunghi dibattiti sul bilinguismo, su Manzoni, sull’irrazionale, Bazlen credeva unicamente al suono. Se una cosa suonava bene, allora era giusta, allora andava fatta. Calasso a proposito scrive: «Oggi (per Bobi) eviterei con rammarico la parola sciamano. Il mondo non sa più contenerla. Direi soltanto che era la persona più veloce nel vedere il «dettaglio luminoso» (Pound) che abbia avuto la fortuna di incontrare».

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