Anna Achmatova: “Ma io vi prevengo che vivo”

Ma io vi prevengo che vivo
per l’ultima volta.
Né come rondine, né come acero,
né come giunco, né come stella,
né come acqua sorgiva,
né come suono di campane
turberò la gente,
e non visiterò i sogni altrui
con un gemito insaziato.

Anna Andreevna Achmatova è nata il 23 giugno 1889. Nella racconta La corsa del tempo, edita in Italia da Einaudi e curata da Michele Colucci, la poesia Ma io vi prevengo che vivo (1940) racconta il buio collettivo calato sopra l’Europa e la Russia, insieme all’incedere dell’ombra scura del nazismo e dello stalinismo. La minaccia antiliberale di quegli anni “quando gli uccelli della morte erano allo zenith’” (come dice un suo verso nella poesia Il vento della guerra) è percepibile nella maggior parte delle sue opere. Achmatova non si fece mai sedurre dall’idea della Rivoluzione ma l’accettò per quello che fu nel concreto: dolore e catastrofe, distruzione della sua e delle altre vite dei russi.

Nelle prefazione a Requiem, elegia sulla sofferenza durante la Grande Purga, la Achmatova appone queste poche righe: 

“Negli anni terribili della ežóvščina ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado. Una volta qualcuno mi “riconobbe”. Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro di me e che, sicuramente, non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di tutti noi e mi domandò in un orecchio (lì tutti parlavano sussurrando):

– Ma questo lei può descriverlo?

E io dissi:

– Posso.

Allora una sorta di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto”.

(Leningrado, 1 aprile 1957)

Achmatova sapeva quindi di poter raccontare, e raccontare è stato per lei un doveroso affanno, una missione faticosa e terribile, ma al tempo stesso l’unica in grado di salvare il corso degli eventi (gli eventi del singolo e dell’individuo) dall’oblio inserendoli nella Storia verso dopo verso, come il coro di una tragedia. 

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