Elsa Morante e il paradiso nell’Isola di Arturo

Sono passati centodieci anni dalla nascita di Elsa Morante (18 agosto 1912, Roma) e ancora i suoi romanzi – dal suo esordio Menzogna e Sortilegio alla Storia – continuano ad assicurarsi un posto nel nostro immaginario, aderendo ai nostri sogni e alla nostra sensibilità come se non fosse trascorsa nemmeno una stagione.

Nella Fortuna Critica che chiude il II volume delle Opere (1950) pubblicato dai Meridiani, Cesare Garboli parla della Morante come un’autrice che «letterariamente, non si sa da dove venga» e quindi nemmeno a quale tempo, tra il suo contemporaneo, i passati o l’intuibile futuro, provenga con esattezza; forse un po’ da tutti, e quindi al tempo più dilatato e vasto: il tempo universale.

Anacronistico e coincidente solo con se stesso, il carattere di Morante, a differenza di quello del marito Alberto Moravia, non è segnato da evidenti tratti antiborghesi. Il nucleo critico del suo lavoro non è il capitalismo storico, ma la realtà stessa, nella sua accezione metafisica. Se la storia letteraria del Novecento italiano venisse presa in analisi partendo dal tema dell’invisibile, i libri della Morante sarebbero i primi a essere studiati e occuperebbero nel corso della lunga indagine un posto di preminenza.

L’Isola di Arturo, uscito per la prima volta in Italia nel 1957, si potrebbe collocare – sempre che i libri di Morante di possano collocare da qualche parte – a metà tra la favola, il racconto mitologico e il romanzo di formazione. È infatti la storia di una crescita, di una maturazione minuziosamente indagata e progressiva. L’epigrafe tratta dal Canzoniere di Saba: «Io, se in lui mi ricordo, ben mi pare …» (e io la continuerei dicendo ‘… di coglierci me stesso’) sottintende che, anche se il libro si propone di raccontare la crescita di Arturo Gerace, orfano di madre e trascurato dal padre italo tedesco, in realtà si impegna a coprire un territorio più ampio, dai caratteri certi dell’universalità; vale a dire le tappe dolorose, conflittuali e sofferte, affrontate interiormente da tutti quando arriva il momento inevitabile di passare la linea d’ombra approdando – o bruscamente rotolando – nell’età adulta.

Una dedica, sotto forma di poesia, precede la narrazione romanzesca. Di seguito l’ultimo verso, sebbene criptico a una prima lettura, anche forte nella sua, all’apparenza ultima, dichiarazione:

«E tu non saprai la legge
ch’io, come tanti, imparo,
– e a me ha spezzato il cuore:
fuori del libro non v’è eliso.»

L’adolescenza, nell’Isola di Arturo, viene raccontata come uno dei periodi più intensi della vita di una persona, una faticosa e inevitabile rincorsa per raggiungere l’età della ragione. Una volta raggiunta, si desidererà sempre tornare indietro, dal momento che, superato il limbo della giovinezza pieni di belle speranze, non esiste in realtà un eliso (un paradiso), né una zona di quiete. Questa, una delle prese di coscienza più dolorose a detta di Morante (a me ha spezzato il cuore), ma anche un passo obbligato, appartenente alle regole della predestinazione umana.

Non a caso Arturo vive il tempo del suo incanto su un’isola; e lì, in quei confini prestabiliti dal mare, separato dalla cruda realtà del mondo, trascorre la sua infanzia e la sua prima giovinezza invitato, pare, dall’isola stessa, a costruirsi, come un selvaggio che fabbrica arnesi in mancanza di strumenti, le sue molte illusioni. Mitologie sulla madre, sul padre, su se stesso e sui possibili risvolti della vita nascono su «straducce solitarie chiuse fra muri antichi, oltre i quali si stendono frutteti e vigneti che sembrano giardini imperiali.»

Ispirata a Procida, l’isola fu il luogo di vacanza dove Moravia e la Morante trascorsero l’estate del 1955 nell’albergo Edoardo. Poi trasformata e adatta come isola altra, evanescente e onirica, Procida regala alla Morante l’ispirazione per il suo primo romanzo di successo. L’isola di Arturo le valse un Premio Strega e un plauso della critica tale da permetterle di uscire in definitiva dal ruolo di ‘moglie di’ e consacrarla come autrice.

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